vendredi 28 novembre 2008

Paranoia comune – di Jean-Jacques Tyszler

Conferenza tenuta a Roma, il 28 novembre 2008
di Jean-Jacques Tyszler
In primo luogo vorrei parlare della forza che esercita all’interno di noi la cosiddetta “paranoia comune”, cioè quello che potremmo intendere come misconoscimento paranoico, nel senso che il nostro rapporto con la vita, con la realtà, con il nostro prossimo, anche nella psicanalisi, fruisce di un misconoscimento che ha il suo nodo centrale nella questione del narcisismo. In altri termini si tratta della vocazione che abbiamo tutti a non poter veramente amare se non l’immagine rinviata di noi stessi, cosa che costituisce effettivamente un dramma terribile. Se a tutto ciò si aggiunge anche il problema del fantasma, ossia la questione della realtà che vediamo solo attraverso una particolare finestra, si intende come il nostro rapporto con il mondo sia frutto di un misconoscimento e questo senza parlare di psicosi ma della struttura ordinaria della personalità, quindi di una paranoia “normale”. Vi darò qualche esempio clinico di questa situazione utilizzando alcuni casi di cui parla Melman nel suo libro, ossia la paranoia che insorge tra i sessi, per esempio in occasione della nascita di un bambino oppure la paranoia che vediamo all’opera tra un bambino e il proprio padre, ossia la denuncia particolarmente moderna della posizione del padre. Vi riferisco ora di due casi di incontro comune cui, venendo a Roma, ho aggiunto un punto sulla questione dello straniero, quindi della xenofobia. Ho voluto aggiungerlo perché spesso mi capita di reagire a sollecitazioni personali che in questo caso sono state di due tipi. La prima è che a Parigi ho qualche analizzante italiano che mi ha detto che era abbastanza allarmato per la situazione che c’era oggi in Italia nei confronti degli stranieri, per cui sentiva una certa difficoltà nel ritornare sulla questione del proprio paese. In un altro episodio invece, ancora più personale perché riguarda qualcuno di più vicino alla mia famiglia, ci sono due giovani che volevano partire per un week-end. Tra loro vi è un meticcio africano che mi ha chiesto un parere circa la destinazione da scegliere. Ho consigliato loro di venire a Roma, ma mi hanno detto di no perché hanno paura. Ecco un esempio di clinica ordinaria che ci arriva da situazioni concrete, ossia questa sensibilità riguardo la questione dello straniero. Non si tratta certo di prendere di mira Roma perché anche a Parigi il problema era diventato particolarmente scottante per altri motivi.
La prima parte della mia esposizione riguarderà quindi una parola, che fra l’altro, mi piace molto, ossia quella di “paranoia comune”. Conoscete tutti il modo con cui Freud ha ripreso il detto, forse più simpatico in latino, ossia che l’uomo è un lupo per l’uomo, che indica bene il modo con cui la psicanalisi affronta la questione, ossia l’umano non si indirizza al bene a e al buono. Si tratta di due forze che si socializzano per poter vivere con il proprio prossimo e sapete bene come Freud insisterà sulla necessità della rimozione potente delle pulsioni che autorizzerà così la vita in comune a prezzo dell’angoscia, del sintomo e dell’inibizione. Se prendete un testo che ancora oggi è rivoluzionario, ossia La morale sessuale civilizzata, vedete che Freud ci dice semplicemente che ogni notte, naturalmente in sogno, desidero la mia vicina, derubo il mio prossimo e uccido. Così arriverà ad isolare l’istinto di morte che secondo lui guida in maniera ostinata ogni essere verso la distruzione di ciò che lo circonda come anche di se stesso. Sapete anche che in molti gruppi la questione stessa della pulsione di morte è stata oggetto di grandi controversie in quanto per gli stessi analisti è sembrato strano quello che Freud diceva riguardo la distruttività all’opera nell’essere umano. Gli storici invece sanno bene come la vita dei popoli è intessuta da una lunga serie di guerre, conquiste e periodi di decadenza. Per quanto ci riguarda, per esempio, ci sono già qui tra noi due generazioni che sono state investite dalla questione della guerra. Questo fa sì che, contrariamente all’immagine del bambino presentata talora dai pedagoghi e più spesso da certi idealisti che lo descrivono come libero da qualsiasi ostilità, Lacan, dopo Freud, ci ricorda che il piccolo d’uomo è immerso in un mondo fantasmatico caratterizzato da violenza cruda. Lacan lo riassume in immagini di castrazione, evirazione, mutilazione, smembramento, dislocazione, sventramento, divoramento, deflagrazione del corpo, tutti elementi fantastici che si ritrovano nelle favole per bambini. La dimensione dell’altro che qui va delineandosi è effettivamente mostruosa, al punto da spodestare la carne umana e varcare i limiti del corpo. Si vede un’aggressività che fa parte della struttura. Si tratta del passo che compie Freud, e che Lacan riprende, cioè dire che tale aggressività di struttura ha la sua ragione nella costituzione dell’immagine del soggetto come tale, cioè quella che all’epoca si chiamava “imago”, la rappresentazione di se stesso. Questo è un punto molto importante per cogliere la caratteristica della questione della paranoia, ossia la questione dell’immagine e della sua strutturazione. Ora ve lo schematizzo in breve perché possiate cogliere il duplice aspetto di questo problema della strutturazione dell’immagine nel narcisismo. Il primo versante è che attraverso l’immagine, o meglio quella riflessa nello specchio, il bambino apprende il proprio corpo arrivando a formare, in un certo senso, l’unità del proprio corpo forse in anticipo sulla sua maturazione, sul suo divenire. Così spesso è valorizzato il tempo di giubilazione ben noto agli specialisti dell’età evolutiva, come anche ai genitori, ossia il tempo di un narcisismo condiviso tra il bambino e l’altro verso cui rivolge lo sguardo. Sono proprio le delizie di quest’incontro […]
Subito dopo, però, incontriamo un secondo versante in atto, cioè il divorzio immediato tra quest’immagine ideale, questa giubilazione condivisa e il reale, i limiti imposti dalla dipendenza dovuta alla stessa immaturità funzionale, che costituisce la base di un rapporto aggressivo e geloso, ossia l’altro versante del medesimo narcisismo. Lacan dirà anche che ciò che Freud chiama l’“io” è pieno di questi gemelli che amiamo e odiamo nello stesso tempo, per cui l’io di cui parla Freud è la matrice di un’aggressività primordiale, di una paranoia comune, come anche eventualmente di follie più passionali.
Per questo spesso curiosamente diamo molta importanza al momento giubilatorio dello specchio e ci dimentichiamo della matrice aggressiva e paranoica che rappresenta l’altro aspetto della stessa situazione. Quando poi nei nostri luoghi di lavoro o nelle nostre famiglie ci preoccupiamo dello stato di agitazione tipica dei bambini d’oggi dobbiamo comunque sottolineare le tappe strutturanti normali dell’aggressività nell’essere umano. Così il fratello è geloso della nascita di un fratello minore, mentre il piccolo tenderà ad odiare gli oggetti più grandi e la sorella rivendicherà il posto occupato dal fratello ecc. Questa dimensione immaginaria, che Freud chiama identificazione, nasce effettivamente nel dolore (del resto sono proprio le donne che partoriscono nel dolore), cioè il dolore che nasce nell’affrontare questo passaggio dà consistenza all’altro: la sorella, il fratello, i vicini e, più tardi, i propri compagni. Occorre quindi tener conto di tutto ciò tanto che, per esempio, lo psicanalista che si occupa dell’infanzia in questo stesso periodo evolutivo sarà più preoccupato di fronte a bambini troppo calmi. Così il piccolo di tre anni che è così tranquillo che quasi non si muove ha molte probabilità di essere più aggressivo rispetto ad un bambino agitato. Per questo Lacan, in un suo contributo magistrale del 1948, scritto poco dopo la fine della guerra e facile da leggere, che si intitola L’aggressività in psicanalisi, si occupa di un aspetto tecnico che riguarda la pratica e dice che l’aggressività di cui ho parlato prima, cioè il solco di questa specie di paranoia comune, non deve essere denunciata, per cui non bisogna pensare che sia qualcosa di scandaloso ma deve essere accolta e orientata nel e dal transfert. Aggiunge quindi che dobbiamo mettere in gioco l’aggressività del soggetto nei nostri confronti perché le sue intenzioni danno origine al transfert negativo che è il nodo inaugurale del dramma analitico. Si tratta di un’annotazione interessante da parte di Lacan che non si lamenta dell’aggressività paranoica del bambino piccolo e non la denuncia come uno scandalo, ma la considera un tratto di struttura che cercherà di mettere all’opera nel transfert.
Quando d’altronde si riceve un paziente in analisi, nei colloqui preliminari non gli si fa un corso sulla libera associazione né gli si dice di far giocare i significanti liberamente. Salvo il caso molto raro in cui il paziente sia particolarmente suggestionabile, andrà ad opporre in primo luogo l’istanza che Freud chiama l’“io” in tutte le forme di prestanza, di misconoscimento e di rifiuto, cioè il paziente dice che non può svelarci con un semplice gioco di associazioni la fonte della sua intimità. Lacan, quindi, come Freud segue la pista del narcisismo nel suo sviluppo ordinario come anche nelle sue evoluzioni più patologiche riguardanti anche la psicosi paranoica.
Vorrei riferirvi ora un’altra breve notazione clinica, dato che avete ospitato anni fa Jean Bergès sulla questione del transitivismo. È molto interessante osservare nel bambino il gioco del transitivismo riguardo l’aggressività, come sanno tutti i genitori, anche se lo dimenticano. Così il bambino che picchia un altro dice che è stato picchiato, oppure il bambino che vede cadere la sua amichetta comincia a piangere, ecc. In questa forma di identificazione ambivalente con l’altro si rivela tutta l’effettiva ambivalenza strutturale del soggetto – così come lo schiavo identificato con il despota, l’attore con lo spettatore, il sedotto con il seduttore ecc.
Quale viatico abbiamo per tale aggressività, per tale paranoia strutturale? In Lacan potremmo trovare un certo numero di piste di ricerca che citerò rapidamente. Così rende omaggio a Melanie Klein sulla questione degli oggetti buoni o cattivi nel modo in cui rende omaggio ai clinici, ossia vi sottolinea qualcosa di molto importante su cui non possiamo fermarci, come anche la questione dei personaggi immaginari e del super-io, o la questione dell’immagine dei genitori e della fine del complesso d’Edipo. A questo proposito Lacan dirà che è giusto ma non è sufficiente perché è un limite di quella psicanalisi il centrare tutte le proprie riflessioni sull’immaginario. Il movimento che si va delineando da sempre nel pensiero di Lacan è quello di staccare da queste strutture di paranoia immaginaria il piano del simbolico in quanto tale, cioè l’impatto della parola, quello che chiama il campo del significante. Tutto ciò è molto importante perché altrimenti avremmo grande difficoltà a distinguere l’io ideale dall’Ideale dell’io. Mi capita di ascoltare molte conferenze in cui ci si rende conto che il livello di divisione che ha introdotto Freud con il suo pensiero non è stato ancora acquisito, cioè io ideale e Ideale dell’io, oppure Ideale dell’io e super-io ecc. Si tratta di due parole apparentemente separate che utilizziamo unendole insieme come se formassero un’unica parola. Quindi l’intuizione clinica di Lacan circa la costruzione della categoria dell’Altro, il bagno nel linguaggio che precede il soggetto, indica che innanzitutto l’ordine del linguaggio e le leggi della parola permettono eventualmente al bambino di superare la paranoia costitutiva della prima individuazione del soggetto.
Lacan si cimenta così con le parole stesse costitutive della psicanalisi. Occorre però sottolineare anche una certa prudenza al riguardo in quanto la psicanalisi non è una psicoterapia, cioè non ha alcuna finalità di armonia, non assicura la felicità. L’aggressività fa parte della vita degli uomini, per cui né la sublimazione, né l’appello al dono, né la questione dell’ideale, come neanche un qualche tipo di trascendenza, né l’esercizio della ragione in quanto tale sono sufficienti a vaccinare l’essere umano dal versante distruttivo del narcisismo. Non si troverà quindi in Lacan un appello alla felicità grazie alla questione della psicanalisi, ma al contrario vi è una riflessione che deve essere anche nostra circa i luoghi in cui si situa oggi la paranoia comune perché i paesi in cui viviamo non si trovano certo nella barbarie dei secoli passati. La paranoia sembra allora trovare rifugio, come dice anche Melman, nella questione della lotta tra i sessi oppure nella questione dell’aggressività narcisistica, come anche nell’individualismo esacerbato a cui siamo confrontati oggi nei luoghi delle imprese e delle istituzioni, in quella che potremmo chiamare la tirannide delle tecnologie, dell’informazione e della valutazione, per esempio la “trasparenza” nella valutazione. Si tratta di un campo formidabile, libero per la paranoia. Così viviamo tutti in una specie di paradosso perché da un certo punto di vista ci sentiamo liberi come l’aria, pieni di diritti e non altrettanto di doveri, ma Lacan a questo proposito dice che ci sbagliamo perché l’uomo della società moderna rivolge contro se stesso una guerra senza personaggi e senza nome, da cui anche il carattere, se così si può dire, di nevrosi di autopunizione, ricordando la famosa tesi di Lacan che riguardava appunto questa cosiddetta “paranoia di autopunizione”. Si può dire che tutto questo riguarda ciò che deve essere argomentato, per quanto possa sembrare complesso, riguardo la struttura del misconoscimento paranoico, ossia della paranoia comune. Non si tratta della forma psicotica, né passionale o folle, ma pone comunque all’essere umano delle enormi difficoltà.
Prima di concludere sulla questione dello straniero vi propongo ancora due esempi clinici. Vi dò come riferimento alcune pagine del seminario “Le paranoie” che Melman ha condotto per due anni in cui parla della questione della dimensione paranoica nella coppia ed in particolare di quella che, al seguito di Freud, evoca come istanza fallica. Nel primo caso si tratta di un dirigente d’impresa che ha cinquant’anni e mantiene una propria vita sociale, ottemperando agli obblighi che gli derivano dal suo lavoro. Gli capita però di avere una relazione con una segretaria che rimane incinta. Quando lo ricevo mi parla di questo problema, che presentato così potrebbe sembrare banale e senza interesse, ma la difficoltà era che la ragazza non riteneva di dover vivere con lui, nonostante attendesse un figlio. Si tratta quindi di una questione interessante in quanto non c’era nessun ostacolo, dal punto di vista sociale, al fatto che questa coppia potesse mettersi insieme, ma la ragazza si opponeva ostinatamente a quest’idea. L’aspetto interessante non è tanto la posizione della ragazza, che comunque non ho conosciuto, ma è il fatto che questo uomo, che era riuscito nel lavoro, nella sua piccola società, abituato anche a prendere decisioni importanti, non sapeva più cosa fosse per lui tollerabile, ciò che poteva o meno concepirsi o anche ciò che fosse o meno negoziabile. L’ho seguito durante tutto il periodo della gravidanza della donna e la questione non è mai stata superata, ma è rimasto sempre disorientato di fronte al rifiuto della compagna. Quando Melman parla quindi di “dimensione paranoica” qui è il voler testimoniare al suo bambino ciò che voleva che non era niente di più o di meglio rispetto a ciò che questo bambino rappresenta. Si tratta di un’espressione violenta, proprio come Melman la presenta nel seminario, ma è comunque il disorientamento di quest’uomo.
A pagina 77 dello stesso seminario, Melman racconta come il padre diventi uno straniero, cioè invece di essere colui che organizza la vita familiare, diventa un estraneo sotto il proprio tetto. A questo proposito vi parlo ora di un altro caso in cui si tratta di un paziente dentista che avevo in cura già da qualche anno e che un giorno mi porta delle lettere di sua figlia rivolte al giudice tutelare e alla Procura della Repubblica. La figlia, che aveva circa diciotto anni, scrive così: “Signor Procuratore, ho deciso di trasferirmi in un piccolo appartamento in via tal dei tali. Fino ad oggi ho vissuto con mia madre perché i miei genitori sono divorziati. Mio padre è medico. Dato che la legge stabilisce il diritto di sussistenza, rivendico tale diritto da parte di mio padre”. Elenca quindi una serie di argomentazioni e conclude la lettera così: “Vi chiedo quindi Signor Giudice di ingiungere a quest’uomo (cioè suo padre) di versarmi una certa somma di denaro affinché possa provvedere ai miei bisogni”.
Vedete quindi un esempio clinico ancora più desolante del primo dal momento che ognuno subisce uno spostamento molto particolare della propria posizione nel patto di parola – e questa situazione merita sicuramente il nome di paranoia, ma non nel senso di una diagnosi psichiatrica sullo stato psicotico dei protagonisti della vicenda. Vedete che in questi esempi, come in altri che vi possono venire in mente mentre parlo, sia l’interlocutore che il partner, colui che è individuato come l’avversario, sono immersi in una situazione di confusione totale. Così il mio paziente dentista non sapeva se fosse giusto per lui opporsi alle richieste della figlia. Vedete quindi una specie di forza che avviluppa le argomentazioni come in un involucro, fino a quello che de Clérambault ha individuato come postulato fondamentale nelle psicosi passionali, cioè una forza assiomatica contro la quale non possiamo fare granché.
Attraverso questi esempi possiamo allora comprendere la famosa frase di Lacan, quando più tardi tornerà alla sua tesi in medicina, ossia che la psicosi paranoica e la personalità in quanto tale non hanno rapporti, ma non perchè non hanno niente a che vedere l’uno con l’altra, ma per il semplice motivo che sono la stessa cosa. Per questo penso che sia giusto parlare di paranoia comune o ordinaria dato che è sempre più frequente incontrare questo versante della clinica.
Per concludere vorrei dire qualcosa sulla questione dello straniero di cui ho parlato prima perché da un certo punto di vista rappresenta il testamento doloroso di Freud nei confronti del peggio che si sta prefigurando, cioè il Freud del testo Mosè e il monoteismo, quello che si trova coinvolto in questa follia, ossia l’incremento dell’odio in Europa. A questo proposito possiamo cogliere il dolore del suo testamento mentre dice che dobbiamo accordare una posizione simbolica allo straniero aggiungendo che dobbiamo trovare il fondamento della nostra identità su un’alterità radicale. Il padre è straniero, come dice Freud nel suo testo su Mosè e probabilmente lo dice perché, se questo è vero dal lato del monoteismo giudaico dovrebbe esserlo altrettanto sul versante della filiazione tedesca ariana, cioè per affermare l’idea che il padre era straniero. Lacan non lo dice allo stesso modo, ma in un certo senso sottolinea più volte che il nostro messaggio viene sempre dall’Altro.
Nella nostra associazione, l’ALI, in alcuni gruppi di lavoro, come quello di Cordoba, ci siamo interrogati su come fanno i popoli in determinate epoche a mettere in comune qualcosa che serva ad evitare, in un certo senso, la paranoia ordinaria. Così si è visto che vi sono dei momenti nella storia intellettuale dei popoli in cui una certa logica ha potuto essere messa in comune a partire da una referenza altra, straniera, per esempio.
Aristotele nei confronti dei tre monoteismi; oppure Mosè o Maimonide per gli ebrei; San Tommaso d’Aquino per i cristiani, Averroè per i musulmani. Quindi capivano che per superare la paranoia abituale occorreva accettare una referenza comune, che sia “Altro” per ciascuno di noi. Lo straniero diventa così un luogo di referenza simbolica attraverso dei principi logici che diventano comuni. Naturalmente potete trovare traccia di questi lavori in quanto si tratta di questioni che presentano ancora carattere di grande attualità.
All’inizio della mia conferenza dicevo che la psicanalisi in fondo non crede alla felicità in quanto tale, per cui la questione più angosciante su cui volevo interrogarvi per concludere è perché ci sembra che un tale tipo di scambio oggi non sia più possibile, ossia perché sembra che uno scambio che poteva avvenire attorno ad una referenza straniera non possa più barrare il richiamo alla paranoia e alla passione comune. Oggi molti parlano, forse in maniera un po’ affrettata, di shock delle culture e delle civiltà per cui si è in dubbio se sia il quadro clinico o l’idea stessa che è paranoica. Ma se vogliamo ragionare seriamente occorre dire che è vero che vi sono delle perturbazioni generali che si sono generate nel campo della civiltà. Dal momento che in Francia si celebra il centenario di Lévi-Strauss, persona geniale, vorrei ricordare come nella sua ultima intervista mettesse in guardia dal rischio della omogeneizzazione accelerata delle culture, cioè quello che gli economisti chiamano mondializzazione. Sottolineava infatti come lo spostamento delle referenze comuni provenienti dal lato dell’uno, della logica verso delle posizioni più oggettuali, di scambio, quindi di mercato, avrebbe creato dei seri problemi dando origine anche a situazioni di aggressività e quindi di paranoia e di violenza. Occorre quindi ascoltare questo messaggio e intenderlo con queste sue modalità un po’ paradossali secondo cui l’esercizio dell’intelligenza umana ha permesso, a partire dall’isolamento di un punto simbolico dello straniero, una certa pacificazione della paranoia. Pur tuttavia, come dice Lévi-Strauss, la sostituzione della matrice abituale con il libero scambio dell’oggetto sarebbe arrivata a creare delle forme di shock interne a ciascuna società, argomento di cui tanto si discute.
Per concludere, quindi, vorrei sottolineare come fin dall’inizio ho cercato di introdurre una certa difficoltà rappresentata dal fatto che la psicanalisi non ci vaccina ma prende atto delle difficoltà di struttura e di cultura. Per quanto riguarda la struttura sappiamo infatti che il bambino passa attraverso questa tensione paranoica nei confronti del suo prossimo e, d’altro canto, nella cultura la posizione dello straniero sta diventando sempre più difficile. Melman, a questo proposito, forse proprio in questo seminario, fa una riflessione interessante ricordando come l’impero romano non riconosceva in sé l’odio nei confronti dello straniero. Quindi sul primo versante poniamo la questione della struttura e della cultura, le fasi della civiltà e poi questo filo teso e sottile che Lacan mantiene lungo tutto il suo insegnamento per esplicitare la dimensione simbolica che sposterà sempre le dimensioni troppo solide dell’immaginario verso quelle significanti, verso le leggi dello scambio, della parola. La dimensione dell’altro diviene allora il ricorso abituale per dischiudere le pieghe della paranoia comune. Si tratta di questioni che ci lasciano quindi con una certa angoscia.

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