samedi 9 juin 2018
Prima parte
Ho visto che avremo due momenti di lavoro, questa mattina affronterò alcuni punti, alcune questioni di questo testo di Freud Lutto e melanconia [1].
Sapete bene che oggi abbiamo il diritto di fare una nuova traduzione di Freud perché ormai si sono persi anche i diritti di traduzione, appunto è di libero accesso. E a Parigi c’è un collega che ha appena terminato una nuova traduzione di Lutto e Melanconia, questo mi ha portato a fare una piccola prefazione alla sua traduzione, sta per essere pubblicata, e se a Roma avessimo desiderio di fare una nuova piccola traduzione, potremmo.
E vi fornirò anche qualche caso di bambini che riguarda il lutto. Quello che è molto sorprendente del testo di Freud, che è la genialità del metodo freudiano, si può cercare di riprodurlo da soli, ma non è facile, è che Freud prende due parole, due termini, da un lato il lutto dall’altro la melanconia, ma sono due parole che mette insieme, ma due parole che per essere messe insieme necessitano di una forzatura, perché il lutto non appartiene per nulla alla psichiatria, non è un termine psichiatrico, non appartiene alla psicopatologia il lutto, appartiene all’esperienza umana ed è piuttosto affrontato attraverso i grandi rituali. A partire dall’uomo delle caverne, sappiamo che ci sono dei riti di lutto, quindi Freud prende questa parola che è una parola immensa, lutto, lo congiunge al termine melanconia e bisogna fare attenzione all’utilizzo da parte di Freud del termine melanconia, e lo potete verificare, avete il testo in italiano, e non utilizza questo termine in senso romantico, ossia riferendosi alla melanconia dell’epoca greca, ma no, quando usa melanconia in questo testo, è la malattia dell’alienismo classico, ossia quello che gli psichiatri chiamano melanconia. E quello che è sorprendente è il modo con cui Freud dice: “Interrogo contemporaneamente le due parole: che cosa chiamiamo lutto? Che cosa è questa esperienza umana? E che cosa invece gli psichiatri chiamano dal loro lato melanconia?”.
Veramente è un colpo di genio il metodo di Freud, ossia prendere un termine che appartiene alla psichiatria e metterlo in relazione con un altro, un termine che non è spontaneamente della psichiatria e che appartiene alla psicopatologia, tanto che quando lo leggete, ancora oggi questo testo di Freud crea parecchi problemi perché si rivolge direttamente al nostro inconscio, perché chiede che cosa io stesso chiamo un lutto, come me la cavo, che cosa faccio io stesso con un lutto.
E da un punto di vista metodologico, di lavoro, il suo resta un punto esemplare, proprio da un punto di vista psicanalitico e perché questo è specificatamente psicanalitico per il fatto che ogni parola che Freud utilizza, lutto e melanconia, precisa che queste due parole non sa che cosa siano. Bisogna fare questo. E Freud stesso dice che non sa come il lutto sia possibile. È Freud che parla e quindi il grande Freud dice che non capisce cosa sia il lutto, e alla fine del testo dirà ancora che non lo capisce, dunque è un non sapere, non è un sapere. Freud non fa il punto, l’elenco di tutto le conoscenze a disposizione sul lutto, dice: “Non so cosa sia il lutto.” e a partire da questo “non so” egli va verso la melanconia dicendo che “Nemmeno so che cosa sia la melanconia, non so che cosa con questo intendano i miei amici psichiatri.”. Ci sono due non so: non so ma devo sapere, forse posso sapere.
E’ davvero un metodo straordinario se anche tra di noi arrivassimo a lavorare così, ossia prendere due parole e lavorare sul non sapere che queste due parole hanno l’una in rapporto all’altra, saremmo freudiani non saremmo lacaniani, nella migliore accezione del termine. Immagino che questo testo lo abbiate riletto ed è strano come dopo 100 anni è ancora attuale. Questo non significa che con Lacan, gli stessi lavori di Marcel Czermak sulla melanconia non hanno potuto fare dei passi avanti in questo senso, hanno potuto apportare anche delle precisazioni cliniche, ma le questioni che pone Freud sono ancora attuali per l’inconscio di oggi. Siamo quindi nel 1917, ossia la data di pubblicazione del testo. Sappiamo che Freud ha scritto questo testo molto rapidamente nel 1915, alcuni studi storici dicono, ma è un po’ difficile da sapere, dicono che l’ha scritto in due o tre settimane, immaginate a scrivere un testo del genere in 15 giorni, non è da poco. Allora è singolare che Freud non collochi lutto e melanconia nella storia dei costumi, delle abitudini, non racconta nulla dei grandi rituali del lutto, come avrebbe potuto, grandi rituali che oggi avrebbero la tendenza a ridursi e dal momento che ricevo molti bambini in analisi sono sempre colpito della domanda dei genitori che chiedono se bisogna portare con sé i bambini ai funerali. Insomma mi sembra strana come domanda, ma è certo che c’è bisogno che ci vadano.
Viviamo in un’epoca in cui la memoria dei rituali si cancella. Nel mio studio ho ricevuto recentemente una persona più anziana, doveva andare al cimitero, ma non si ricordava assolutamente più dove si trovasse la tomba di suo padre. É sorprendente ma è anche diventato banale, ci ritorneremo poi. Freud comunque non parla di tutti questi rituali, di tutte queste forme di obbligo che hanno attorniato il lutto. Esito a dire l’elaborazione del lutto, insomma si dice sempre che bisogna fare l’elaborazione del lutto, ma Freud questo termine nel suo testo lo utilizza una sola volta e quindi non sembra che abbia una grande importanza nel suo testo. Anche se ora facciamo finta di sapere che cosa sia l’elaborazione del lutto.
(dalla sala) qualcosa la dice, il fatto che viene staccato ogni ricordo e aspettativa relativa all’oggetto perduto. Non più di questo in effetti.
Jean-Jacques Tyszler Freud comunque non racconta nulla della storia del lutto, non dice nemmeno nulla della grande tradizione filosofica, e nemmeno parla dei riferimenti, che conosceva bene, ai grandi filosofi tedeschi, come ad esempio Schopenhauer, di cui a questo proposito ci sono testi straordinari, Nietzsche, e nemmeno in quello che si chiama il romanticismo tedesco, perché sapete bene che la parola melanconia ha avuto una grande influenza nella storia dell’arte, nella poesia. Ma non è su questa tradizione che si appoggia Freud, Freud invece cerca di costruire un testo clinico perché cerca di descrivere che cosa avviene a seguito della perdita di un oggetto. E’ questo il problema di Freud, qualche cosa è perduto, una perdita non è una mancanza, si perde qualcosa che Freud chiama perdita d’oggetto e quindi Freud si pone una questione di psicopatologia, ossia come una persona risponde a una perdita d’oggetto.
Non è una questione filosofica, nemmeno romantica, è semplicemente una questione clinica. Freud resta davvero un grande clinico, si interessa a questioni che chiamiamo di psicopatologia, vi racconto le cose come stanno. Credo che sia difficile oggi parlare di Freud senza ricollocarlo nel suo proprio contesto, non si possono prendere testi simili al di fuori del loro contesto, e quindi bisogna fare anche un piccolo sforzo per restituire un momento di scrittura da parte di Freud, ossia con che cosa aveva a che fare l’uomo Freud nel momento in cui scriveva, perché Freud aveva un inconscio e quindi se scrive qualche cosa in 15 giorni vuol dire che per lui veramente era un’urgenza mentale scrivere, qualcosa che lo premeva ... siamo qui nel1915 e questo è il periodo della grande guerra mondiale e i due figli di Freud, Martin e Ernst, sono al fronte, non è da poco per un padre avere due figli al fronte - immaginatelo, due figli, e due figli sono partiti in guerra e talvolta vi viene il pensiero se non rischiate di perderli, è veramente stato un grande massacro, una carneficina la prima guerra mondiale - Freud stesso viene a sapere che ha un cancro, soffriva già di questo ma dal suo medico viene a sapere che è grave, capite bene le condizioni nelle quali si può veramente scrivere un testo in 15 giorni, occorrono delle questioni profonde perché una persona si senta obbligata in questo senso.
Questo è un lato del contesto, quello che riguarda il lutto, la perdita. Per quel che ne è dell’altro lato, ossia quello che ne è della parola melanconia, come spesso lo dimentichiamo, invece Freud lavora con un gruppo, non è solo, dovete fare attenzione nel leggere Freud a pensare che sia un genio isolato, non è così. Freud lavorava con dei collaboratori, degli amici, degli allievi, e si poggiava molto su quello che gli dicevano. Dunque, per quanto riguarda la melanconia, Freud riprende qualcuno che conoscete, ma forse non molto bene, che è Karl Abraham. Penso che tutti gli articoli di Abraham siano tradotti in italiano, uno psichiatra, un grande chimico, psicanalista, ma insomma uno psichiatra molto bravo. Freud chiede anche a Ferenczi e anche a uno psichiatra molto bravo che è Ludwig Binswanger, che ha fatto delle descrizioni ineguagliate della malinconia nella tradizione tedesca, che non è proprio la stessa psichiatria della tradizione francese - sapete bene che la versione francese della psichiatria è diversa da quella tedesca, quella francese è una tradizione molto clinica, la tradizione tedesca è più fenomenologica, più filosofica. Quindi possiamo avere i grandi testi di Binswanger. E Freud quindi chiede ai suoi amici: “Lavoro come psicoanalista provatamente, ho visto solamente tre o quattro casi di mania, melanconia. Ma voi che siete negli ospedali e nei servizi, che cosa potete raccontarmi, che cosa è la melanconia?”. E’ interessante vedere il modo in cui lavora Freud, per il lutto interroga il suo inconscio, per la psicosi interroga i suoi colleghi, dicendo: “Non ne so molto, insegnatemi e cercherò di mettere in rapporto quanto voi mi dite con il mio inconscio.”, un bel modo di lavorare.
Siamo quindi nel 1915, e Karl Abraham aveva già redatto un testo che potrete facilmente trovare su internet. Già nel 1911 aveva redatto un testo che si chiama Preliminare all’investigazione e al trattamento della follia maniaco depressiva. Una volta insomma si parlava di follia e non di psicosi, ma è lo stesso. Già nel 1911, Abraham dice che è interessante seguire dal punto di vista psicanalitico la follia maniaco depressiva, è un’osservazione interessante.
Perché sapete bene come Freud considerava che la psicanalisi e la psicosi non fossero facili. Mentre Abraham dice che per questi casi di follia maniaco depressiva è possibile, è interessante. Nel dicembre del 1914 c’era la Società Psicoanalitica a Vienna. Tutti i mercoledì sera si riunivano, un po’ come qui, si vedevano tutti lì intorno a Freud, e là c’è qualcuno che conoscete che propone un testo, che anche quello potete trovare su internet, Contributo a un’esposizione psicoanalitica della melanconia, un anno prima, anche questo, del testo di Freud. Sapete che Freud scriveva molto ai suoi colleghi, abbiamo dei testi preparatori, scrive lettere a Ferenczi, le tre che preparano il manifesto di Lutto e melanconia. Tenete bene presente questo modo di lavorare di Freud, tutte le grandi conquiste di Freud sono collettive, non so se abbiamo ancora consapevolezza di questo.
Per esempio come chiamate in italiano il testo che in francese si chiama L’interpretazione dei sogni? Quante edizioni avete? Una. Anche in francese. Voi credete che sia la sola, l’unica. Quindi, se un giovane all’università prende il testo di Freud sui sogni, crede che sia un’unica versione che in francese si chiama La scelta dei sogni, ma in effetti ci sono state sei edizioni, quindi quella che noi conosciamo in italiano e in francese è la sesta. Che cosa è accaduto? Che per degli anni Freud e i suoi amici hanno lavorato insieme per capire il modo in cui si leggesse un sogno, è l’opera più collettiva di tutta la storia della psicanalisi. Un’opera di sei edizioni e alla sesta Freud decide, prende le sue forbici, taglia, toglie dei capitoli che erano stati scritti insieme, ossia in particolare tutti i capitoli che parlano del simbolismo in psicanalisi, non voleva apparire troppo letterario. Ma tutto questo per dirvi che Freud, quando componeva un testo importante, erano testi collettivi che avevano bisogno di essere accompagnati. E soltanto alla fine, dopo qualche tempo, fissava la propria dottrina. Non era orgoglioso.
Ci sono due cose importanti da ricordare: Lutto e Melanconia è contemporaneo ai lavori che chiamiamo sul narcisismo, vi ricordate Introduzione al Narcisismo, 1914, e questo fa sì che nel testo Lutto e Melanconia molte cose sono reinterpretate attraverso il narcisismo, ossia per Freud la posizione melanconica si iscrive in una relazione narcisistica prevalente. Ma anche questo è difficile da comprendere, lavorava contemporaneamente su vari ambiti, quindi lavora per un certo tempo su Lutto e Melanconia, contemporaneamente fissa e stabilisce cosa intende per narcisismo e un altro aspetto molto importante è che sta riflettendo a qualcosa che arriverà un po’ dopo, ossia la pulsione di morte, nel testo poi conclusosi con la pubblicazione nel 1920, Al di là del principio di piacere. In questo senso la pulsione di morte riattualizza la lettura della melanconia. Vedete quindi come si costruisce una parte della teoria clinica, bisogna che ci sia una questione posta dall’inconscio, ossia: “Che cosa capiterà, se i miei figli morissero al fronte? Cosa succederà? Posso prepararmi a una questione simile? Ma tutti i miei amici che sono all’ospedale mi dicono che vedono dei melanconici, ma che vuol dire? Mi dicono che la melanconia ha a che fare con la perdita dell’oggetto, ma in che rapporto è con il lutto? E’ in rapporto cioè con me?”. E poi ancora i lavori paralleli, la questione sul narcisismo, quella della distruttività, pulsione di vita, pulsione di morte. Freud prosegue con tutti questi frammenti insieme e improvvisamente, quando c’è una luce che appare, prende la sua penna e in qualche settimana compone il suo testo.
Quello che dobbiamo accettare è che la questione del lutto resta aperta, inoltre direi per fortuna, perché se avesse fatto un dizionario sul lutto sarebbe terribile, vi renderete conto che, se si descrivesse come bisogna cavarsela con il lutto in tre lezioni, sarebbe davvero scandaloso. Quindi per Freud il lutto resta un enigma. Karl Abraham, sul quale Freud fa molto riferimento, nel 1926 dirà: “Prima di tutto devo sottolineare che la comprensione profonda dello svolgimento del lutto normale ci viene a mancare.” e questo lo dice dopo il testo di Freud, proprio lui, sul quale Freud aveva fatto molto affidamento, dice che non saprebbe dire cosa è un lutto normale. E’ una fortuna avere avuto, tra i precursori, degli psicanalisti così onesti. Io ancora non lo so, è quindici anni che ci lavoro e non lo so ancora.
E’ buona proprio come posizione etica, insomma questa espressione, elaborazione del lutto, la potete mantenere perché ormai la si usa comunemente, ma è un modo per chiudere la questione. Freud evoca il passaggio necessario attraverso un tempo paradossale, quello che chiama il sovrainvestimento dell’oggetto perduto. Quando qualcuno muore, occorre parlare di questa persona ancora di più nei dettagli che di quando era in vita, ricercando i fili che vi univano in maniera ancora più intima a quest’oggetto, perché sono gli stessi fili della vostra vita, e in questo Freud dice che è facile ritrovarlo in noi. È questo appunto che egli chiama sovrainvestimento paradossale, insomma non si può abbandonare così l’oggetto perduto, bisogna idealizzarlo ulteriormente.
Per quello che riguarda invece la melanconia, la formula transitoria di Freud, transitoria perché tutti i lavori che sono stati fatti dopo Freud su questa questione, attraverso Lacan e attraverso Marcel Czermak, fanno sì che le formule di Freud possano apparire all’inizio poco soddisfacenti, ma non importa, bisogna leggerle e accettarle all’inizio, prima di sostituirle con altre formule che vi potrebbero sembrare più lacaniane.
Quindi per la melanconia Freud dice identificazione del Me, Ich, dell’Io, con l’oggetto perduto, è questa la chiave per Freud riguardante la melanconia, vedete che non è la stessa formula per il lutto. Per il lutto, parla di sovrainvestimento idealizzato di un oggetto, invece, per la melanconia parla dell’identificazione dell’io con l’oggetto. Mette cioè l’oggetto e l’io nella stessa mano. In questo testo Lutto e melanconia, Freud dice una frase, nel 1915, e che poi riprenderà nel 1921 nella Psicologia delle masse e analisi dell’io, una frase che potete annotare e la troverete in italiano: “Quando l’oggetto è perduto l’investimento è sostituito da un’identificazione che prende soltanto in prestito un solo tratto dalla persona oggetto”. E quindi vedete bene l’inizio della teoria del tratto, ossia è sufficiente che un tratto sia prelevato sull’Altro per identificare la totalità della persona oggetto e conoscete bene la continuazione di questa storia poi del tratto unario, su cui Lacan farà un seminario intero, ossia L’identificazione, che tratta soltanto della questione del tratto unario, ossia del tratto unico che vale come interezza, ma c’è bisogno di almeno un tratto per poter parlare di lutto e di identificazione simbolica. Diversamente è l’identificazione con l’oggetto, ossia la melanconia.
Questo è Freud teorico geniale, certo dice: “Non so nulla di questo.”, ma a furia di non saperne nulla, mette una piccola frase ma che è l’inizio di tutte le idee sull’identificazione. Se non facciamo attenzione, si può leggere questo velocemente, per questo bisogna leggere Freud molto lentamente, con una matita, perché mette delle perle incredibili. Ma scrive questo nel 1915 e lui stesso ci impiega sei anni per spiegarlo a se stesso. Infatti sei anni dopo, dice: “Vi avevo detto che, ed ecco perché vi avevo detto questo …”, sei anni di lavoro interiore per giustificare questa posizione, questa intuizione clinico-teorica. Leggendo Freud, nei suoi testi, si vede come lanci un’ipotesi e noi la prendiamo come qualcosa che abbia un valore, ma non abbiamo subito gli elementi per capirlo bene e Lacan che, come sapete bene, ha detto: “Io ritorno a Freud.” lo faceva veramente, riprendeva i testi di Freud in tedesco. Lacan fa un seminario su un’unica frase, su che cosa è questa identificazione, tratto per tratto, che rappresenta il cuore dell’identificazione umana, ecco il seminario sull’Identificazione. Lo potete riprendere non è così difficile da leggere ed elaborare. E’ un peccato che non sia stato tradotto in italiano perché, come vedete, non parliamo altro che di identità. In Francia tutta la discussione è sull’identità, noi siamo questa identità, gli altri sono un’altra identità, identità che non vogliamo vedere. Ma Freud non parla di identità, ma parla invece di identificazioni. Il messaggio di Freud è capitale, non parla mai di identità, ma dice che l’uomo è costruito attraverso delle identificazioni, per ciò che dobbiamo al Padre primitivo o all’Altro primitivo, per quando riguarda l’identificazione primaria - Tutte le forme che conosciamo bene di identificazione isterica, per cui incontrate qualcuno e subito avete anche voi male nello stesso posto, tutte queste forme di identificazione speculare ed immediata. E poi quello che dice Freud è che ci si identifica spesso prelevando un solo tratto che varrà per la totalità, e dunque per Freud il soggetto è fatto da questo gioco di identificazioni, non c’è un’identità, e quindi sarebbe urgente tradurre questo seminario. C’è una traduzione non ufficiale.
Insomma sarebbe urgente che gli analisti dicessero che per loro esistono le identificazioni e che utilizzano il termine identità soltanto perché sottoposti al discorso locale. Nel piccolo testo che ho scritto su Freud, e coloro che conoscono il francese possono leggerlo, dico che Freud stesso, nella sua vita, non dirà di se stesso che è ebreo, ma dirà: “Dico che sono ebreo.”, cioè un modo di dire dell’identità, “Ma lo dico soltanto perché ora l’odio è presente nella città di Vienna.”. Ed è per questo che comincerà a dire “Sono ebreo”, ma non utilizzava mai queste formule per presentarsi, insomma non andava alle riunioni del mercoledì sera o ai congressi dei neurologi dicendo “Sono ebreo”, a parte il giorno in cui l’odio sociale lo obbliga a fare questo. Vedete bene come in questo testo del 1915, in una sola frase che riguarda il lutto, Freud fornisce un’idea di quello che chiama il tratto minimo di identificazione, così chiamato in tedesco, che Lacan ha chiamato unario, e che in tedesco è tradotto unico. Questo lo considero un colpo di genio unico, ossia come su delle questioni che non arriva più a concludere, ossia dire che cosa sia il lutto - poi vi spiegherò come pongo la melanconia tra nevrosi e psicosi - ossia Freud aveva delle difficoltà a definire se la melanconia fosse nel campo delle psicosi, oppure se, come Abraham faceva, ad avvicinarla piuttosto al campo delle nevrosi ossessive. Freud era un po’ inguaiato con queste classificazioni, tuttavia con tutte queste difficoltà, Freud è alla ricerca di queste questioni che rimarranno le grandi questioni della psicanalisi, ossia che cosa chiamo oggetto, un oggetto in psicanalisi, se dico oggetto perduto. Posso dire oggetto d’amore, oggetto della pulsione, oggetto del fantasma, oggetto parziale, ne abbiamo moltissimi di oggetti, è un’insalata di oggetti, e insomma resterà sempre una questione delicata, e Lacan dirà che deve rispondere alla questione che cosa sia l’oggetto. Perché in psicanalisi abbiamo troppi oggetti e lascio evidentemente fuori, non entro nel merito di tutti gli oggetti posti nella psicanalisi inglese, e là ce ne sono anche veramente molti di questi oggetti.
Quindi la questione è che cosa è un oggetto per la psicanalisi, che cosa è un tratto di identificazione, e con queste due chiavi, identificazione e oggetto, da un certo punto di vista, avete tecnicamente tutto il lavoro di una cura analitica, proprio anche di una seduta d’analisi. In una seduta d’analisi quando andate dal vostro analista, o se ricevete appunto dei pazienti, nelle parole che sono dette, nei significanti, come li chiama Lacan, vedrete sempre sorgere, venir fuori, quello che fa l’identificazione, a quale tratto il soggetto si è identificato nel suo destino oppure a quale tratto non è in grado di identificarsi, tratti che ha rifiutato, e allo stesso tempo con quale oggetto ha a che fare, che sia realistico questo oggetto o fantasmatico. Vedete bene che in un testo come questo ci sono tutti i temi che stanno a cuore alla psicanalisi e quindi proprio per questo dopo cento anni interroga ancora.
Allora volete che vi dia qualche piccolo caso clinico e lasciamo le domande per dopo queste presentazioni, e poi mi direte se vi sono dei punti che vi sono rimasti oscuri?
Ho cercato insomma di presentarvi per quali motivi questo testo Lutto e melanconia, non è il solo, sia immortale. É curioso il fatto che questo testo abbia un contesto, la guerra, la malattia, la morte, l’odio nella città, ma allo stesso tempo è fuori contesto, insomma sarà in grado di essere adottato in ogni contesto. Ci sono evidentemente dei testi non psicanalitici che sono simili, se prendete Shakespeare, Aristotele, ossia testi che valgono in quanto grandi testi.
Allora, vediamo ora qualche caso di bambino circa appunto la questione del lutto, insomma sentirete in ogni piccolo caso le stesse questioni, ma invece di sentirle da un punto di vista teorico, le coglierete nelle parole di questi bambini. Si tratta di due fratelli, uno ha sette anni e l’altro dieci, sono venuti da me perché la loro madre sta per morire. Insomma c’è qualcuno la cui morte è annunciata, insomma una morte annunciata, ma che dura da un certo periodo, quindi ogni settimana il padre accompagna questi bambini. Non è facile far venire i bambini in questa circostanza perché mi sono accorto che non avevano alcuna intenzione di parlare di questa situazione, insomma non avevano voglia di raccontarmi che la loro mamma andava senza sosta in ospedale e poi ritornava, significava esigere troppo da parte loro - e poi alla fine a quale scopo? Ma come spesso accade con i bambini si è instaurato un clima un po’ ludico, e quindi uno parlava dei suoi cartoni animati Pokemon e l’altro di stupidaggini che faceva a scuola, ossia questo è il modo con cui un bambino si difende, facilmente. Il tempo passa, fino a quando si viene a sapere che si sta avvicinando il momento, e poco tempo dopo ricevo il padre che mi chiede di partecipare direttamente alla seduta con i due bambini, mi racconta che sfortunatamente vedranno il termine della vita e appunto i bambini sono diventati più seri e che il bambino più piccolo bisognerà seguirlo da un punto di vista quasi psichiatrico perché presenta degli atteggiamenti di autoaccusa - sapete che nel testo di Freud c’è questo riferimento all’autoaccusa. Cioè, il bambino si chiede se ha fatto abbastanza per sostenere sua madre, pensa che non ha fatto abbastanza per accompagnare sua madre in questa avversità. Quindi la domanda del padre la possiamo riassumere così che bisogna medicalizzare il lutto, psichiatrizzare. Sono io che la riassumo in questo modo, io gli ho risposto come Freud, come vi ho raccontato che fa Freud. In presenza dei bambini gli ho detto che il lutto non è affatto una questione psichiatrica, non è un fatto relativo alla medicina, e quando uno muore ci si accusa sempre di non aver fatto abbastanza, il bambino quindi se lo chiede. Quindi ho deciso questo, ho detto che “questo momento è della vostra famiglia, spetta a voi affrontare insieme questa prova, di trovare le parole per accompagnarla, e quindi certamente che i bambini siano presenti in tutti i momenti, e poi farne il punto e vedere cosa capita. Se c’è motivo per continuare a vederli, bene, sennò vedremo”. Vi parlo di questo perché è stato pubblicato in Francia un libro dal titolo La medicalizzazione delle emozioni, tradotto dall’americano, è un problema moderno, oggi si vuole medicalizzare tutto.
(dalla sala) Nel DSM5 il lutto risulta patologico se non si è fatto il lutto in tre mesi, questo dice il DSM.
Jean-Jacques Tyszler Quindi il DSM sa cosa è un lutto, Freud non lo sa, ma il DSM lo sa. Un esempio semplice ma che potete trovare frequentemente in cui la psicanalisi deve ricordare, così come fa Freud, che molte esperienze umane non appartengono alla psichiatria e quindi non si va a portare dal neuropsichiatra infantile dei bambini che hanno attraversato un lutto. Se hanno angosce, incubi, difficoltà a scuola…possono venire benissimo in analisi più tardiva, ma Freud lo dice che il lutto non appartiene alla medicina. La parola e l’esperienza del lutto, non sono un’esperienza medica.
(dalla sala) Che cosa fa sì che tu abbia accettato dall’inizio di prenderli in analisi?
Jean-Jacques Tyszler Perché uno dei due fratelli ha una certa patologia, insomma non è autistico ma è malato dell’autismo e quindi il padre non sapeva più come fare, c’erano troppe cose contemporaneamente e quindi pensavo che questo fosse il modo per regolare un’angoscia che era diventata troppo ampia nel padre.
(dalla sala) Era il figlio più grande?
Jean-Jacques Tyszler Sì. Ma è il più piccolo che si è dichiarato colpevole.
Un altro esempio clinico che vi dice chiaramente che cosa è un tratto di identificazione. Si tratta di un fratello e una sorella, la sorella più piccola dovrebbe avere circa 7 anni e il fratello due anni di più. E’ lo zio del padre che si occupa dei bambini, zio che è medico e che ha la patria potestà sui bambini, perché il padre è morto e la madre che è schizofrenica non ha appunto avuto la potestà legale sui figli.
Sono stato un po’ angosciato quando ho ricevuto questi bambini perché avevo a che fare con un doppio lutto, quindi i bambini erano in lutto per la morte del padre e dovevano fare anche il lutto della madre. Perché il giudice aveva interdetto che la madre si occupasse di loro e quindi questo è molto pesante per i due bambini.
Ma ecco per rifarmi anche a quello che dicevo prima del modo di lavorare di Freud. Fortunatamente nel Servizio pubblico dove lavoro, non sono solo, in genere quando si lavora nelle istituzioni vi è una forma di transfert collettivo per noi psicanalisti, ci sono le segretarie, gli altri colleghi, e quando riceviamo delle situazioni dure non siamo completamente soli, come la collega che avete incontrato recentemente, Eva-Marie Golder, che non era presente in particolare il giorno in cui questi bambini sono arrivati, ma ce ne erano altri. Chiudo la parentesi, ma è interessante vedere come Freud avesse il suo entourage, i suoi amici, e anche noi abbiamo bisogno di questo entourage, non si può lavorare da soli. Anche se apparentemente nel proprio studio privato si lavora da soli, ma in principio non lavoriamo nemmeno da soli.
I due bambini erano colpiti all’inizio da una forma di agitazione, non li si poteva separare. Litigavano senza fine, e per molto tempo non si poteva discutere con l’uno, senza che l’altro non lo annullasse attraverso le sue provocazioni. Quindi un tempo di agitazione e di stupore. C’è un aforisma di Lacan, semplice e che mi piace molto, che dice che “Il reale ritorna sempre nello stesso luogo, nello stesso posto”, ossia riceviamo il paziente ogni settimana, alla stessa ora, nello stesso luogo - sembra poco ma è enorme come rituale, ritorna ogni volta alla stessa ora, nello stesso luogo. E qualsiasi sia il loro stato, questi bambini ritornano ogni settimana, agitati o meno agitati. Il tempo passa, passa qualche settimana, e a proposito del DSM5, qualche tempo passa, qualche mese, e un giorno i bambini sembrano divertirsi in tutt’altra cosa e improvvisamente il ragazzo grande dice: “Ma ti hanno detto che papà è morto?” - E’ una parola che mi è stata indirizzata…un po’ strana, ma comunque è la prima volta che ha preso la decisione di dire. Molto sommessamente gli dico che, come lui sapeva, ero stato informato - ecco sarebbe stato quasi importante filmarlo, perché dal punto di vista emotivo è molto importante viverlo, è più difficile da raccontare - e i due bambini contemporaneamente si sono messi a cantare delle canzoni molto amate dal padre, quelle che chiamiamo in francese delle canzoni con un testo, dove la melodia è supportata con un vero testo, canzoni d’autore, perché il padre amava delle canzoni d’autore. E i due bambini piccoli insieme mi hanno cantato dei frammenti di queste canzoni, molte delle quali hanno come soggetto l’amore, e a loro modo, senza leggere Freud e nemmeno Lacan, stavano inventando un modo loro proprio di identificarsi. Ossia prelevavano un tratto del padre, ossia semplicemente l’amore del padre per i cantautori, e come dice Freud incorporavano questi testi, al punto tale da farsene portavoce. E quello che mi ha stupito è che, per essere dei bambini piccoli, conoscevano bene il testo, perché c’erano parecchie strofe di testo. E quindi incorporavano il loro padre attraverso questi testi. Insomma è stato come se mi avessero fatto un corso su Freud. Come sappiamo che qualcuno è morto? Come l’inconscio lo sa? Come riceve questo? Come è sicuro che l’oggetto è perduto? Quanto tempo ci vuole per saperlo? Ma se un giorno dico che sì, è vero che è perduto, quale tratto manterrò? È un bel lavoro, ed è quasi un lavoro lacaniano perché in questo c’è un tratto che è preso nella lettera, nella letteralità, con la vocalizzazione; quindi c’è il canto, poi ci sono i significanti e poi cantavano in due, insieme. Vedete come ve lo racconto, e sembra che l’identificazione sia così semplice. Freud ha ragione, bisogna che comunque ci sia questo tratto minimo, perché altrimenti non sarebbero diventati melanconici, ma sarebbero diventati agitati, bisognava che qualcosa venisse a tagliare questa agitazione, perché potessero sostenere almeno un tratto unario, quello solo che permette a loro di fare memoria del loro padre. Non hanno bisogno di imitarlo, di vestirsi come lui, questa non è la questione, ma almeno un tratto incorporato - e forse manterranno questo gusto per i cantautori, come il padre.
(dalla sala) Ha detto melanconici? Sarebbero rimasti agitati, non sarebbero diventati melanconici, volevo riprendere questa cosa del lutto. Perché melanconici piuttosto che in lutto?
Jean-Jacques Tyszler Quello che mi ha inquietato l’ho detto all’inizio, trovavo che, per due bambini così piccoli, fare due lutti contemporaneamente, ossia di un padre realmente morto e di una madre - e da un punto di vista immaginario e simbolico, anche il lutto di una madre a cui è stata tolta la potestà è troppo, perché anche parlare dell’impossibilità della loro madre a prendersene cura non è facile. E’ un grosso lavoro, per dei bambini, riconoscere che la loro madre è malata mentale e quindi sono affidati al loro zio. Sono io che all’inizio ho trovato che fosse enorme come lavoro questo da chiedere a dei bambini, ossia anche prendersi carico di questi due problemi contemporaneamente. Ma bene, questa domanda mostra bene che l’Edipo non è tutto, mostra che quello che chiamiamo Edipo è un modo di dire, che semplicemente gli Altri del soggetto potrebbero essere più variati.
(dalla sala) Si ma volevo dire un’altra cosa. Era sul discorso che aveva fatto a proposito della distinzione dell’identificazione all’oggetto e dell’identificazione al tratto unario, e quindi mi chiedevo se il cantare queste canzoni d’autore fosse sull’uno o sull’altro versante. Quando ha detto melanconici, ho detto allora siamo sull’identificazione all’oggetto, invece su quel versante siamo sull’identificazione al tratto.
Jean-Jacques Tyszler E’ per questo che è durato parecchi mesi, penso che ci sia stato un momento in cui questo non si poteva distinguere, ossia l’inconscio di questi bambini non sapeva che strada prendere perché l’agitazione è una forma di oggetto, come nella pulsione, girando intorno, è una forma di agitazione disordinata intorno a un oggetto che non si sa qual è. C’è stato un tempo di latenza di parecchi mesi, in cui la pulsione esitava tra il tratto, insomma non sapeva. Io non potevo decidere questo, non potevo che incarnare il reale che resta allo stesso posto, ossia bisogna quantomeno ritornare.
E non è male, nel nostro ambito, avere questo tempo di obbligo, di obbligazione, un tempo di silenzio, di attesa. Non so se, in questo caso, fosse il fratello che aiutava su questa via di ripetere le canzoni, ma comunque la piccolina lo ha fatto con molta generosità, non era una imitazione, faceva la sua parte. Se avessi potuto filmare, questo tratto sarebbe stato molto indicativo perché mi hanno fatto un corso su Freud. Il lutto non sappiamo che cosa sia, non sappiamo come fare, ci vuole del tempo e si tratta di cercare di trovare un cammino esattamente.
(dalla sala) Sembra costruire una continuità tra le due condizioni, quella melanconica e quella del lutto, perché mi sembra che il cotè più oscuro rimane sempre quello della malinconia. Cioè anche il lutto non sappiamo cos’è, però con questo fatto di staccare gli elementi uno per uno, oppure del tratto unario, qualcosa possiamo costruire nel caso della melanconia rispetto a questa identificazione all’oggetto.
Jean-Jacques Tyszler Resterà oscuro questo fino a quando Marcel Czermak non semplifica le sue posizioni in cui dice che l’oggetto della melanconia è lo scarto dell’operazione soggettiva, ossia l’identificazione al mostro. Cioè bisogna che mi taglino ancora, perché sono un mostro per i miei, per tutti quelli che stanno vicino a me, per la terra e per il mondo intero. Bisogna cioè attendere che Lacan specifichi meglio che cosa sia il grande Altro e l’oggetto, per avere una logica della mania e della malinconia come è quella che Marcel Czermak racconta nei suoi articoli, perché altrimenti con Freud non capiamo bene di quale oggetto si parli. Anche questa formula di Freud “L’ombra dell’oggetto ricade sull’Io”, la capiamo perché è molto poetica, ma quando ci pensiamo bene non la capiamo, crea un problema di metodo perché quello che Freud chiama oggetto resta molto enigmatico. Ed è per questo che prende maggior senso quando dice che l’unica cosa che ha cercato di fare è chiarire che cosa sia quest’oggetto, e perché affronta l’oggetto attraverso le tre categorie di Reale, Simbolico e Immaginario. E quindi vedete bene come le canzoni sono completamente dal lato del simbolico, è un appoggio che è simbolizzato.
Quando riceviamo un vero melanconico, si sente bene che il mostro di cui parla è veramente reale, quindi è veramente nel reale, non è una metafora. Insomma direi che bisogna aspettare Lacan e le tre categorie di Reale, Immaginario e Simbolico per capire veramente che cosa sia un oggetto, ma anche il modo con cui il lutto funziona. Le osservazioni di Freud restano eccellenti dal lato del lutto, non c’è da aggiungere molto di più attraverso Lacan.
(dalla sala) In relazione al testo di Freud, in relazione alla melanconia, in relazione all’identificazione all’oggetto scarto, quello che porta alle situazioni di suicidio, il soggetto si indentifica … già in Freud c’è…
Jean-Jacques Tyszler Bisogna essere onesti, certo, è un testo geniale e interessante, ma allo stesso tempo quello di Freud è anche un testo che suscita molte ambiguità. Ed è per questo che la posizione di Freud su quella che noi chiamiamo la psicosi maniaco depressiva resterà particolare, non la inquadra e non la lavora allo stesso titolo delle altre psicosi. Bisogna ricordarselo questo, perché attraverso Lacan, invece nell’altro senso, si è semplificata questa questione. Con Lacan tutto è rimesso allo stesso principio attraverso la forclusione del Nome-del-Padre. Ma non è questa l’idea di Freud sulla follia maniaco depressiva, e bisogna ricordarsi di tutte queste contraddizioni. Non siamo dei religiosi, non dobbiamo quindi prendere posizioni forzatamente da una parte, bisogna ricordarsi che sono vicini, ma con delle differenze.
Ecco, è per questo che vi vorrei restituire il gusto di voler lavorare assieme, ma senza voler forzare i due aspetti e metterli in un unico contenitore, non bisogna essere forzatamente troppo dogmatici. Bisogna fare attenzione così come Lacan fa con Freud, a volte è molto rispettoso, a volte dice che esagera e poi, alla fine della sua vita, Lacan dirà che quello che aveva detto Freud andava bene. Per esempio, a proposito delle identificazioni di cui parlavo prima, Lacan fa questo grande seminario L’identificazione. Ma perché dice che Freud dice che ce ne sono tre di identificazioni? E’ stupido -perché tre? Quindi lavora, lavora. Prendete gli ultimi seminari di Lacan. Quando ha superato i 75 anni, Lacan dice che alla fine non è arrivato a dire meglio di Freud, Freud dice che ce ne sono tre, quindi ce ne devono essere tre. E questo mi è sempre parso interessante, ossia sulle questioni cruciali della psicanalisi, il fantasma e l’identificazione, Lacan dice che in fondo non arriva a dire di più di quello che ha detto Freud, con una riserva - che bisogna dire per le giovani donne che vedo presenti - cioè che Lacan ha detto che bisognerebbe comunque fare uno sforzo dal lato femminile, ossia che non ci si poteva fermare a Freud completamente, per raccontare quello che avviene dal lato della donna. Sperava che la psicanalisi facesse uno sforzo perché Freud racconta quello che ne è per il maschile e poi dice che per le ragazze è più o meno la stessa cosa. Ma comunque bisogna attualizzare questo problema, però comunque, a parte questa grande riserva, Lacan dirà, alla fine della sua vita, che sulle basi non c’era da dire meglio di Freud. Lo sappiamo perché, quando Lacan era perso nei nodi borromei, questi seminari speciali sulla topologia, nello stesso periodo, era anche invitato all’estero, e particolarmente c’è questa conferenza che fa negli Stati Uniti, era la stessa epoca, e di che cosa parla Lacan? Non parla loro del nodo borromeo, parla loro del suo amore per Freud e dell’inconscio freudiano. Sono le conferenze fatte appunto negli Stati Uniti, bisogna fare attenzione quindi a come si raccontano le cose nella vita.
Volete allora un altro esempio clinico? Ci sono prima delle questioni?
Vi darò un terzo esempio sulle difficoltà, per non essere troppo pesante, per non dire stupidaggini, ossia che dobbiamo tenere presente che anche in noi stessi c’è una incompletezza nel raccontare tutto questo. D’altra parte, sapete che c’è questa scrittura di Lacan che conoscete, ossia l’incompletezza di ogni sistema formale, ma che si può anche interpretare come uno dei Nomi del Padre, quindi tra i Nomi del Padre c’è quello che Lacan scrive Nome del Padre. Conoscete la storia della forclusione, vi è anche appunto il fallo simbolico, ma anche non dobbiamo dimenticare il terzo termine, ossia dal momento in cui si parla, qualsiasi cosa si racconti, che sia apparentemente consistente, come sto facendo, sperando che questo discorso tenga, più o meno, c’è un punto che non appartiene né alla tradizione né alla mia propria posizione e che è un punto di incompletezza e di cui bisogna accettare il lutto, è uno dei Nomi del Padre. E’ molto importante in Lacan questo terzo termine che ci permette di evitare di raccontare troppe stupidaggini.
E quindi venendo al caso. Ricevo una bambina di 10 anni, ne accogliete molti in Italia, è una bambina rifugiata, che viene da un paese africano. Siamo toccati oggi da tutte queste questioni sui rifugiati, sugli immigrati, ma tuttavia nei Servizi riservati ai bambini e nei Servizi materno infantili dobbiamo ricevere tutti i bambini che vengono portati, sia che siano in posizione di regolarità o meno rispetto ai documenti e ai permessi di soggiorno.
Viene da un paese africano devastato dalla guerra civile. Il padre, che era dal lato del potere, un giorno si è fatto uccidere, quando il potere era cambiato, come capita spesso in questi paesi. Parte con sua madre in Francia come rifugiata. Non so perché, ma spesso, nei bambini di origine africana vi è una sorta di vitalità, di forza, davvero sorprendente. Sono sempre stato colpito, nonostante tutte le difficoltà dell’ambiente, dalla loro capacità di andare a scuola, di imparare il francese, rispetto a me che in 30 anni non ho ancora imparato l’italiano, e poi si presentano sorridenti, anche lei, chiedendomi se le potevo trovare delle poesie attraverso internet per aiutarla a scuola. Quindi attraverso un lutto, ma presentandosi a me, come spesso capita con i bambini, con questa forza vitale, anche questa è una forma di lezione che noi riceviamo, ossia nessun pianto. Sono contento di riceverla, però arriva un certo punto della narrazione del suo percorso, e là, per una stupidaggine fatta da me, credendo di farle piacere, le dico: “Sei una bambina veramente coraggiosa.”, che è vero. Non saprei come descrivervelo, ma tutto il suo volto improvvisamente si immobilizza, mi fissa, e nel transfert si è creata una forma di inversione, è lei che mi ha messo in silenzio, mi ha fissato in maniera silenziosa. Mi interrogavo di questo e mi dice, cosa magnifica: “Sì, ma non è sufficiente.” cioè non bisogna invocare il coraggio così. Mi sono scusato, le ho fatto capire che non avrei dovuto dire una banalità così. Insomma a quel punto non so più come devo rispondere, ma non è importante, quello che è importante è che lei che mi ha detto che ha a che fare con un’incompletezza e che “Tu accetti che ho una incompletezza, e che devo fare il mio cammino proprio con questo, e con tutti questi incoraggiamenti psicologici non è proprio il caso di continuare. Cioè bisognerebbe che tu fossi più lacaniano, altrimenti non è il caso che tu mi parli troppo”.
Quindi è il modo questo, per raccontarvi come in effetti in queste zone siamo ai bordi, noi stessi siamo confrontati, dobbiamo stare attenti a non psicologizzare troppo. Nel caso del lutto, si ha molta tendenza, un po’ per empatia, è naturale, ad essere nella dimensione affettiva, soprattutto con i bambini, ma anche con gli adulti. Ma le cose non si regolano attraverso la condivisione dell’affetto, dal punto di vista della posizione dello psicanalista. Non parlo degli amici o della famiglia, parlo di noi come psicanalisti. Bisogna che come analisti ci regoliamo accettando, e che, in mancanza della protezione costituita dal padre, bisognerà poggiarsi sull’incompletezza, che è uno dei Nomi possibili, certo non il più tradizionale, non il più facile per noi. Ci sono molti bambini che se la sbrigano così, ma ne vediamo anche molti arrivare attraverso le tragedie dell’Europa e non diventano psicotici. Bisogna che tuttavia prendano appoggio su qualcosa di umano, ma sempre attraverso un incontro, non può avvenire senza un incontro. C’è bisogno di qualche buon incontro perché se non si incontra nessuno…
Volete che parliamo un po’, ci sono delle questioni, degli interventi?
(dalla sala) Il secondo caso mi ha interessato. Lei ha parlato delle tre forme di identificazione e anche accennando un po’ questa questione, Lacan dice anche che è molto misteriosa la prima forma, perché Freud dice che è un’incorporazione. Non so se questa cosa ha a che fare anche con l’ultimo periodo di Lacan quando parla della Bejahung. La Bejahung forse per Lacan è qualcosa di reale, porta la simbolizzazione?
Jean-Jacques Tyszler Lei lo ha detto, riassumendolo nella sua domanda. In Freud c’è una riflessione difficile sul punto originario, che fa sì che Freud si sia molto appoggiato sui miti, ossia che quando affronta dei problemi originari, dei punti di fondazione dell’umano, dal punto di vista originario, transgenerazionale, pone in essere ed attualizza delle curiosità, cioè la storia del padre dell’orda primitiva, la storia dell’incorporazione del padre, cioè si mangia del padre, ossia il periodo orale cannibalico, come prima identificazione, e anche il mito, quello più grande, più conosciuto, che è il mito di Edipo. Insomma dal punto di vista di Freud c’è questa attualizzazione dei miti della psicanalisi stessa. Ossia se oggi a Roma andate alla Facoltà di Antropologia o Sociologia a raccontare questo, direbbero che sono delle favole, cioè non sono discorsi scientifici, non valgono nulla, sono semplicemente dei miti freudiani. Freud se ne fregava che fossero mitici e che non fossero abbastanza scientifici, ma aveva bisogno di fissare un punto di reale originale da cui deriva la storia, davvero strana, dell’identificazione primaria - non sappiano se era al Padre o all’Altro materno o paterno, nel senso di paterno e materno allo stesso tempo. I colleghi che lavorano proprio sull’infanzia dicono che si tratti di identificazione con la Madre, ma non serve a nulla darne una prova formale, per Freud c’è la necessità di un punto primario originario.
Avete ragione nel dire che Lacan sostiene che diventa troppo complicato avere a che fare con questo, nel dire che la psicanalisi non arriverà a trasmettere la sua disciplina attraverso dei punti originari, così come sono delle favole o grandi miti, e quindi direi che Lacan ha cercato di dislocare la psicanalisi dal mito al logos, ossia tutto dalla lingua senza che vi sia bisogno di riferirsi al mito. E per quanto riguarda il padre mitico, Lacan preferiva dire che è strano che in tutte le strutture umane vi sia dell’Uno, non diceva che vi era un padre dell’orda primitiva mangiato dai figli, ma che, in ogni gruppo umano, qualcosa si presenta sotto forma di ingiunzione, che c’è dell’Uno, e questo Uno è esso che fa sì che si possa scegliere questa o quell’altra identificazione, questa o quell’altra lettura, lettura letterale, ed è per questo che in alcuni seminari cerca di lavorare logicamente, quasi dal punto di vista matematico il fatto che ci sia dell’Uno. Un giorno vi è anche un momento in cui, nel mezzo dei suoi seminari, dice: “Anche il complesso di Edipo non lo chiamo più complesso di Edipo, perché è troppo sacrificale, ma lo chiamerò semplicemente la funzione del padre, il Nome-del-Padre.”.
Lacan ha raccontato come ha cercato di farsi carico dei miti di fondazione di questo tipo, giustamente ha cercato, perché in fin dei conti ancora oggi, nella psicanalisi, così come essa si propone e si pratica, si capisce bene come queste questioni freudiane sono lì presenti, perché la cultura sociale le ha adottate, ha adottato queste tematiche. Mentre Lacan può sembrare molto astratto per un giovane filosofo o per un altro giovane che proviene da un’altra formazione, e questo fa sì che i matemi lacaniani non sono facili da condividere. Se alla Facoltà di Filosofia scrivessi questo, mi direbbero va bene, arrivederci e grazie, oppure avrei bisogno di un tempo molto lungo perché, per il fatto che si rivolgono direttamente all’inconscio, ci parlano direttamente questi miti di Freud. Infatti anche la storia dell’incorporazione del padre interessa piuttosto un etnologo, lo troviamo in altre culture, ci sono forse dei miti simili, ma che dicono questo diversamente, viene quindi assunta come un’ipotesi. Direi quindi che la prima identificazione, la primaria, Lacan non parla di questo nel suo seminario sulle identificazioni, non la vuole trattare, dice che la tratterà più tardi e non farà un seminario specifico su questo e quindi resta un po’ un buco. Forse non poteva, forse non lo desiderava, o forse stimava che quello che stava raccontando contemporaneamente su c’è dell’Uno, valesse al posto dell’identificazione primaria.
(dalla sala) Volevo dire, nel secondo caso, mi è sembrato come se questi bambini avessero risolto poi la situazione del lutto, lanciando questa canzone avessero rotto un po’ questa agitazione, vissuta nel reale, attraverso una simbolizzazione, che però viene da un posto misterioso, lo direi così. Ritorna molto particolare questa soluzione.
Jean-Jacques Tyszler Forse questi bambini mostrano la forza di una simbolizzazione altra. Insomma ci ricordiamo che abbiamo organizzato qualche anno fa delle giornate su Dante? Perché avevamo fatto questo? Perché Lacan stesso un giorno ha detto “Smetto di dire Nome del Padre, dico Nomi del Padre.” lui stesso che aveva detto Nome-del-Padre? È tutto nel grande seminario sulle psicosi, il Seminario III. Catastrofe in coloro che lo ascoltavano, dicevano: “Lacan diventa politeista, che succede? E’ matto? Mente? O forse si sta ponendo delle questioni?” - Coloro che erano vicini a Lacan in quell’epoca.
Sappiamo - Melman lo raccontò quando venne a Roma per il convegno - che Lacan stava lavorando, come Freud contemporaneamente, in quegli anni. Aveva ripreso lo studio della Bibbia classica e sembra che a casa sua avesse un’immensa carta geografica dove era segnata la migrazione del popolo ebraico. Insomma cercava di comprendere che cosa fosse capitato, in epoca storica, e questo è il Nome del Padre classico. Contemporaneamente si era messo a lavorare su Dante, che era tutt’altra tradizione, perché Dante non ha fondato una tradizione religiosa, ma tuttavia è un Uno della storia e della lingua italiana, e dunque c’è dell’Uno grazie a Dante, senza che abbia domandato al Papa, e questa è un’altra cosa. Il terzo termine di lavoro di Lacan all’École, che Muriel Drazien ama molto, è Joyce. Considerava che il lavoro di Joyce valesse come un Uno, completamente altro rispetto alle tradizioni classiche, valeva cioè come un’invenzione nel sociale, e nella scrittura, così importante come gli altri Uno precedenti. Lacan, a suo modo, diceva quando diciamo Uno è un modo di dire, quando diciamo il Nome è un modo di dire, perché in verità lo si pensa sempre da un punto di vista teologico, ci si riferisce sempre a un monoteismo, ma la psicanalisi dal canto suo non può forse poggiarsi su bordi di simbolizzazione altri, che siano altri, e sembrava che Lacan avesse trovato, negli esempi di simbolizzazione trovati da Dante, oppure come nell’esempio, che è molto clinico, di Joyce, Il Sinthomo, delle forme inattese di C’è dell’Uno.
Ma che sono completamente dei tagli nella cultura, ossia degli apporti a tutta quanta la cultura, e che non sono rappresentati dal bordo religioso abituale. E quindi questa è la risposta che ha cercato di dare alla questione del mito.
Insomma rispettando tutto quello che ha detto Freud, se lo volessi dire diversamente, cosa direi? Da dove viene questo C’è dell’Uno? Può venire per una persona sola, come per tutta la città, attraverso delle vie molto diverse, ossia alcune vie - è il Lacan che cerca di fare in modo che la psicanalisi resti universale, non è riservata al monoteismo, sarebbe strano. Abbiamo dei colleghi belgi che adesso vanno in Cina perché alcuni cinesi si aprono alla questione della psicanalisi. Chiaramente non vanno a parlare loro della Bibbia, ci sono già stati i Gesuiti all’epoca. Ma la scrittura cinese stessa, come gli Uni si trasmettono nel logo stesso, nella scrittura, è così che la psicanalisi resta vivente, perché è capace di incontrare l’Altro e di parlare di temi fondamentali, ma senza colonizzarlo forzatamente con il Nome-del-Padre, nel senso in cui noi lo intendiamo. Ma questa è una questione che riguarda il compito più difficile della psicanalisi. Perché bisogna essere onesti, il seminario, in cui Lacan appunto parla di C’è dell’Uno, appartiene a dei seminari appunto molto difficili da leggere perché vi è molta logica matematica. Noi facciamo molta fatica a cogliere cosa vuol dire e già tra di noi facciamo molta fatica a metterci d’accordo sulla significazione di questa espressione e poi, per spiegarlo al di fuori dei gruppi analitici, bisogna fare uno sforzo importante se vogliamo che la psicanalisi resti viva. Ma la giornata su Dante era all’interno della città, bisogna che la psicanalisi resti nella città, non all’esterno, se vogliamo che essa viva. Sono molti che sperano che se ne vada via, ma conservate queste questioni, bisogna lavorarle, perché sapete dopo aver detto il Nome-del-Padre, cosa ha detto dopo? “Non chiamo più ciò i Nomi del Padre, ma chiamerò ciò RSI”. Ogni volta che pensavamo di aver capito qualcosa, avanza. Ma quando dice che chiama i Nomi del Padre RSI, dice che tutto è all’interno del gioco del logos, delle lettere. É questa la specificità della psicanalisi, l’esercizio della psicanalisi non è altro che l’incontro della parola e delle lettere, non siamo antropologi, non andiamo a riscrivere la storia della civiltà. Insomma siamo contenti di seguirlo e di averlo compreso e il giorno dopo cambia la chiave di lettura e, forse lo fa proprio per questo, per dirci che tutto quello che ho detto è incompleto, e spetta a voi di continuare a dire e a cercare. Una scienza completa è morta.
(dalla sala) Volevo dire una cosa, questa emorragia libidica, questa perdita della libido che è la melanconia, si avvicina molto al suicidio narcisistico o egoistico, ce ne può parlare ancora un po’?
Jean-Jacques Tyszler Oggi pomeriggio ne parlerò un po’ di più, della questione della mania e della melanconia. Il suicidio in senso proprio non è specifico della melanconia, ciò che è proprio della melanconia è l’idea di essere uno scarto che deve essere ancora una volta ritagliato dal mondo. Non è quindi il suicidio. Bisognerà trovare una parola, è un punto logico di nuovo taglio, è interessante che il fatto che la figura più estrema di questo punto lo avete nel testo della sindrome di Cotard, dove il paziente, a furia di essere melanconico, si dichiara immortale, cioè è come un incidente nucleare, “Sono uno scarto, avveleno tutto e in più sono immortale”, e quindi chiede se lo si può ancora tagliare per guarire l’umanità della sua presenza. Non è un suicidio. E’ un problema elevato al rango stesso della storia stessa. E’ vero insomma che nelle cure di questi pazienti che presentano delle psicosi maniaco depressive, vediamo delle presenze di passaggi all’atto che necessitano di protezioni da alcuni rischi suicidari e dai rischi sociali che sono legati al loro patrimonio, ai loro soldi. É questo uno dei rischi della nominazione moderna dei disturbi bipolari perché, se voi dite che qualcuno ha un disturbo bipolare, sembra che appunto gli psichiatri e gli psicanalisti abbiano meno paura. Quando si diceva psicosi maniaco depressiva si era molto inquieti, molto vigilanti, ma dal momento che oggi tutti sono bipolari, vediamo molti incidenti proprio a causa di questo, incidenti della vita. Resta una questione di clinica psicanalitica.
(dalla sala) Quello che Lei dice del fatto che Lacan aveva spostato il mito al logos, bisogna rendere schifoso quello che è schifoso, perché già in Freud esiste dietro questa necessità da lui espressa del mito fondatore, c’è già questa questione del gioco della lettera. Basta rileggere l’Uomo dei ratti, ossia il fatto del mito edipico, un dogma. Mentre aveva già fabbricato questo tessuto della lettera che è l’inconscio. Basta rileggere la Lettera 52 a Fliess, oppure, anche in questo testo del 1915, quello che dice della rimozione originaria, ne fa veramente un punto necessario originario, ma si tratta della rimozione di una lettera, di un significante, e Lacan non ha fatto altro che riprendere quello che era in Freud, specificandolo meglio, e che non aveva l’apporto dei linguisti nella sua epoca, di De Saussure.
Jean-Jacques Tyszler Lacan non ingiuria mai Freud, è molto attento, non li dobbiamo mai opporre quando ne parliamo, ci chiamiamo lacaniani ma è una contrazione, un modo di dire, ma è in rapporto ai colleghi che si dicono freudiani ortodossi, ma nella nostra formazione appunto siamo con Freud e direi che quello che porta a Lacan sono delle nuove forme di contestualizzazione del culturalismo, della linguistica, e questo sottende il fatto che ci potranno essere delle nuove forme di contestualizzazione, che ci saranno, avverranno, ci saranno cioè nel tempo, altri modi per raccontare Freud e che terranno conto degli avanzamenti nel campo delle scienze umane. Hai ragione non dobbiamo opporre Freud a Lacan, sarebbe stupido, ma dico questo perché spesso noi psicanalisti siamo criticati di essere noi stessi riduzionisti. Vi faccio un semplice esempio, ero in Africa nel Benin, in una riunione in cui vi erano psichiatri, psicologi, anche una delle suore che lavorano negli ospedali, c’era una specie di piccolo congresso, e quando arriviamo a questa riunione, durante la pausa, mi vengono a trovare degli psicologi giovani e mi dicono: “Noi psicologi africani vogliamo davvero fare uno sforzo, siamo d’accordo di accettare come caso di lavoro di ridurre quella che voi chiamate famiglia alla famiglia viennese di cui parla Freud, ma fate anche voi uno sforzo dal vostro lato, ma accettate che quello che chiamiamo qui famiglia non ha niente a che fare con ciò. Quindi se voi volete che vi sia uno scambio sulle questioni della psicopatologia bisogna che ognuno faccia un passo avanti.”. Insomma sappiamo bene che parlare dell’Edipo a Roma o a Parigi è più o meno la stessa cosa, si sa che cosa si voglia dire, ma se io domani andassi in India, a Pechino o in qualsiasi paese africano mi ascolterebbero soltanto a metà - è strano a Parigi vivono come a Vienna nel Novecento - non mi seguirebbero completamente, non bisogna che la psicanalisi dia l’impressione di portare degli schematismi, ma attualizzare i principi che si vogliono comunicare, insomma quando mi si chiede sull’Edipo cosa direi per esemplificare, direi che sono sicuro che, in ogni paese del mondo qualsiasi siano le tradizioni, si esige sempre dai bambini più piccoli una forma di sottrazione del godimento, questo è certo, in nessuna cultura si lascia da solo un bambino onnipotente. Questo è certo, ognuno lo può chiamare come vuole, non ha importanza, ossia che ci sia un godimento attraverso ciò che Freud chiama castrazione. Cioè che ci sia un limite al godimento, che voi lo raccontiate attraverso un mito o attraverso altro, questo si comprende in qualsiasi cultura del mondo, quindi possiamo fare degli sforzi nella trasmissione. Freud per esempio adorava la Grecia antica, i grandi miti egiziani di passaggio alla morte, non si è per nulla granché appoggiato sulla Bibbia per quanto se ne dice, dopotutto è la sua tradizione. E’ l’inconscio di Freud, Lacan è più romano, dal mio punto di vista, per un italiano, Lacan è più facile, per l’amore che Lacan aveva della teologia cristiana, andava a trovare suo fratello, che era monaco, per discutere di teologia e il fratello Marc racconta che non ha mai sentito suo fratello parlare con lui di psicanalisi, ma lo interrogava sulla teologia e quindi in questa formulazione “C’è dell’Uno e poi il tre”, si capisce bene l’influenza della teologia cristiana, inconsciamente. Quindi conosciamo anche i punti di appoggio di Lacan, bisogna rimettere il ricercatore nel suo contesto, quali sono i suoi propri tratti di identificazione, con quale oggetto dell’inconscio lavora, e passando da un autore all’altro evidentemente non sono uguali gli appoggi e i punti di riferimento propri, e ci saranno quindi dei seguiti che non possiamo prevedere. Insomma la linguistica e lo strutturalismo, lo strutturalismo è stato poi contestato, non hanno più lo stesso potere, non possiamo appoggiarci nemmeno sulla biologia, non siamo biologi, non sappiamo quindi a quali appoggi potrà aprire, non credo nemmeno nella matematica, è troppo difficile per gli psicanalisti, ma ci saranno sicuramente dei punti di appoggio che si scopriranno, e allo stesso tempo bisogna stare attenti, potrebbero arrivare attraverso l’influenza di altre culture, non si sa nemmeno come mai Lacan si fosse curiosamente interessato al Giappone, alla scrittura giapponese, con una questione che poteva sembrare veramente stupida, ma bisogna comprenderla, forse è lo stesso inconscio rispetto al nostro, nel Giappone vi è lo stesso inconscio all’opera? Con la stessa tecnica? E quindi se un paese così potente come la Cina si apre alla psicanalisi non possiamo sapere che cosa possa accadere, potremmo anche avere delle sorprese inattese. É per questo che mi piace molto questa scrittura.
Seconda parte
Jean-Jacques Tyszler Entro in merito a tre o quattro punti che ho considerato in questo articolo, che ho scritto per il JFP [2], che è una questione molto moderna in psichiatria, ossia le conseguenze di un cambiamento di nominazione nel campo della psicopatologia. Ossia che cosa avviene, quando invece di parlare di psicosi maniaco depressiva, utilizzate come solitamente capita in medicina ora, il termine americano disturbo bipolare. Si tratta di un cambiamento di nominazione, che cosa avviene? Io non utilizzo il termine bipolare, ma resistere a questo individualmente non è sufficiente. Bisogna chiedersi perché e come una parola è sostituita da un'altra. E quindi accettare anche come il nome delle malattie in psichiatria, sono allo stesso tempo dei fatti di cultura, ossia c’è una storia di cultura delle malattie mentali, che dipendono dai tempi dalle malattie delle epoche, ecco che le nominazioni delle malattie mentali non sono necessariamente le stesse. Credo che voi in Italia siate più vicini alla tradizione francese, credo. Non dico che sia la stessa, ma siete più vicini alla tradizione francese, segnata da un grande rigore clinico e che si interessa soprattutto confrontando, distinguendo e separando, e attraverso la clinica si interessa di dire questo è quasi simile o differente. Nel tempo avevo conosciuto Paola Carola, molto giovane, quando lavoravo in un Servizio psichiatrico a Parigi, e lei aveva tradotto Tanzi, un autore italiano il quale aveva scritto sulle paranoie. Da lì, mi sono reso conto come questo Tanzi, uno psichiatra del ventennio fascista, fosse molto vicino alla nominazione francese. E poi chiaramente all’ interno della psichiatria, prima della guerra, avete un'altra tradizione che è quella tedesca, ma se leggete gli autori tedeschi la loro traduzione è molto più filosofica e il loro punto di vista è meno medico. Interrogando i grandi filosofi fino a Heidegger, potete vedere come i nomi, le nominazioni possono essere simili, ma dietro prevedano delle teorie differenti. A proposito della melanconia, avete dal punto di vista degli scritti teorici dei grandi autori francesi, ossia che hanno anche scritto, descrivendola, la clinica. Conoscete Cotard, ne abbiamo parlato stamane, Séglas, Falret, Faberge, che hanno descritto il ritmo, cioè il fatto che questa sia una malattia ciclica, un aspetto che oggi ci sembra evidente ossia che oggi uno possa avere un episodio maniacale a vent’anni e poi a trent’anni un episodio melanconico e poi a cinquant’anni, dopo, un altro tipo di episodio. Ma abbiamo dovuto attendere il diciannovesimo secolo affinché i medici si interessassero a questa stravagante circolarità. E infatti all’epoca fu chiamata la malattia circolare, ma questo non si trovava nelle descrizioni classiche, greche o latine, perché descrivevano la mania e la malinconia, ma non si erano interessati alla circolarità. Ecco nella scuola francese vi è questo lavoro clinico e descrittivo che cerca di descrivere gli elementi strutturali. Se per esempio leggeste i grandi testi dei clinici tedeschi, vedreste come essi si interessano ad altre dimensioni, per esempio la storia del dolore morale, quando qualcuno si accusa da solo, si chiedono, di quale sbaglio, di quale mancanza, errore, il soggetto si accusa. Il problema dell’errore. Insomma un altro modo per approcciare la stessa malattia, quindi troverete molti testi sul dolore morale, l’anestesia affettiva, che esistono nella melanconia. Ma direi piuttosto nella tradizione tedesca, che noi stessi non dovremmo dimenticare, è il fatto che il nome di una malattia è allo stesso tempo un’entità. È come dire, è una malattia, si chiama così, è un’entità, ma per gli psichiatri tedeschi classici lo stesso nome è una posizione del soggetto, una posizione praticamente filosofica rispetto a ciò che capita. Melanconia è quindi allo stesso tempo il nome di una malattia e un modo di pensarsi, una cosa che non è stupida, è interessante sostenere che non è sufficiente descrivere uno stato senza interrogarsi sulla posizione del soggetto, e questo lo trovate nella grande descrizione dei testi tedeschi prima della guerra. Dopo la guerra ero a Berlino, e a Berlino avevano dimenticato anche Carl Abraham e quindi erano diventati americani, come in molti paesi che perdono la memoria, la stessa cosa è successa in Israele, gli psichiatri israeliani erano diventati americani e avevano dimenticato il paese da dove arrivavano. Vedete, mania, melanconia, apparentemente sono le stesse parole dell’antichità, quelle che trovate nelle descrizioni dell’epoca di Ippocrate, ma allo stesso tempo sono prese in tradizioni di lettura differenti. Se voi andaste in Giappone a discutere con psichiatri giapponesi, hanno ancora come punto di riferimento la psichiatria tedesca, non conoscono per esempio molto gli autori francesi e quindi vi trovate in difficoltà con questo. Vi dico questo perché l’organizzazione moderna dei disturbi bipolari, noi la possiamo contestare, trovando tutto questo estremamente povero rispetto all’antica psichiatria, ma è il modo di pensare dell’individualismo americano questo. Negli Stati Uniti, da un certo punto di vista, il soggetto che lavora tutto il giorno deve prendere delle amfetamine per sostenere lo shock, che è in uno stato un po’ ipomaniacale senza sosta per far fronte ai punti deboli della sua impresa. Per gli americani, questo è l’eroe americano normale, per loro fa parte dell’individualismo corrente e quindi affrontano i disturbi bipolari come una risposta normale alla società moderna. Per noi, sarebbe come dire che dimenticano tutto, la grande tradizione classica, ma fanno questo in un modo molto più pragmatico, si chiedono in quale spirito vive oggi il soggetto della modernità. Non dimenticate che la psichiatria non è una scienza esatta, non è come le malattie infettive, la psichiatria è molto più approssimativa perché riguarda le malattie dell’anima e dunque tiene conto di come in ogni epoca la malattia dell’anima viene considerata. Quindi è una lettura diversa, un altro paradigma rispetto alla letteratura individualista fatta dagli americani sullo sviluppo americano, ma che descrive molto bene la modernità. Ci sono per esempio dei giovani che prendono droga, ma non si considerano malati, per loro è la norma, è normale; è il giovane che non vuole assumere la droga che passa come anormale, quindi la questione della norma è importante, dipende.
In questo numero di JFP abbiamo cercato di affrontare questo sulla psicosi maniaco depressiva rispetto alla nominazione disturbi bipolari. Questo non ci impedisce anche di esprimere un giudizio sulle assurdità della farmacologia, perché gli stessi psichiatri americani si lamentano che la loro pratica sia dipendente dalle industrie dei farmaci, è diventato veramente uno scandalo planetario, ossia che si distribuiscano massivamente prodotti per delle diagnosi sempre più approssimative, ma soprattutto per dei riferimenti di età sempre più piccole, per delle persone sempre più giovani. Per quello che riguarda la nostra questione oggi, noi per esempio diciamo che non esiste la psicosi maniaco depressiva nei bambini, questo non significa che non possano esserci dei disturbi nei bambini quando sono piccoli, o dei disturbi che annunciano, ma si diceva che nell’infanzia non c’era una follia costituita maniaco depressivo. Quindi nessuno psichiatra dava del litio né faceva l’elettroshock a dei bambini, teoricamente è vietato. Ma se oggi invece parlate di disturbi bipolari, è un disturbo, per esempio rispetto alla follia, che può sembrare leggero e quindi i farmacologi dicono: “Che cosa impedisce, per esempio ad un giovane ad un adolescente, di avere dei disturbi ormai a quindici o diciassette anni, oppure a tredici anni?”. Ma sappiamo che oggi ci sono molti prodotti prescritti per i bambini più piccoli, per dei disturbi cosiddetti bipolari in bambini. Insomma questo crea un problema non solo etico, anche morale, deontologico, ossia se è normale che in società democratiche come le nostre si permette all’industria di mettere sul mercato prodotti del genere? E quindi, per esempio a Parigi, facciamo parte di un gruppo di psichiatri contro il DSM americano, lanciato dagli stessi americani. Ventitre anni fa ho visto a Parigi i due più grandi psichiatri americani che hanno fondato il DSM IV - il vero DSM americano è il DSM III, ossia quello che ha fatto la teoria del DSM - uno si chiama Alan Francis, che è il direttore e la donna più anziana si chiama Andrea Andersen, e sono venuti a Parigi a dirci che era molto più grave di quello che si pensasse in Francia, ossia che la psichiatria si era messa totalmente al servizio dell’industria farmacologica. Eravamo stupiti, insomma gli abbiamo detto: “Non andrete mica a riprendere la psichiatria francese? –No, non abbiamo più la cultura di tutto questo”. Ma avevano desiderio di far sapere quanto fossero distanti da questo desiderio dell’industrializzazione della farmacologia. Lasciamo da un lato l’autismo, completamente, ma c’è un'altra patologia il disturbo da iperattività, esso pure è un’invenzione della farmacologia e che permette di dare delle medicine veramente strane nei vari tipi di agitazione. Quindi l’industria, dal fatto suo, non smette di inventare nuove nominazioni che fanno passare nel discorso attraverso gli psichiatri, ma questo sta diventando un po’ difficile, o attraverso la medicina generale, dal momento che in Francia gli psichiatri erano molto prudenti su questo, dunque è la farmacia che formava i medici generalisti.
Insomma quando avete un nome nuovo, disturbo bipolare, possiamo dire che non siamo d’accordo, ma perché? Sicuramente è il riflesso di un nuovo modo della società di pensarsi, ricolloca la patologia in un contesto, non vogliamo più dire psicosi, oggi non è ben visto, preferiamo che il paziente resti un cittadino, va benissimo, ma poi vediamo che lascia una strada aperta a tante altre cose, ossia alla distribuzione di pillole su scala massiva e quindi fabbrichiamo delle addiction attraverso i farmaci. Ed è riguardo all’infanzia che, per uno psicanalista della mia età, era completamente vietato, per esempio io faccio per dei miei ragazzi una ricetta all’anno, forse Corinne un po’ di più, essendo nei servizi ospedalieri.
I cambiamenti della nominazione sono molto interessanti. In genere gli psicanalisti restano molto rispettosi delle nominazioni classiche e forse anche di più degli psichiatri stessi. Nel senso che la psicanalisi ha quasi annesso a sé il campo della psichiatria classica, il titolo sembra essere curioso si chiama Journal Français de psichiatrie, ma è costruito da psicanalisti lacaniani. Per dire insomma che il campo della psichiatria classica è discusso ormai soltanto all’interno dell’ambito psicanalitico e questo può sembrare paradossale.
C’è una questione importante che riguarda la questione della follia maniaco depressiva, che è l’osservazione che ci proviene da Aristotele e che vi leggo, perché Aristotele pone una questione importante, e vi accorgerete come sia difficile ancora oggi rispondere ad una questione così ampia, Aristotele si chiede questo: “Perché tutti gli uomini eccezionali nella filosofia nella politica nella poesia o le arti sono chiaramente dei melanconici, un certo numero di essi, sono veramente affetti da sintomi di malattia che provengono dalla bile nera”. La questione di Aristotele è molto importante, come è possibile che il genio dell’uomo avvenga al costo di qualcosa di malato dell’uomo, ossia veramente ammalati, i veri sintomi della malattia, insomma che ci sia questa prossimità tra malattia e genialità nell’uomo? Forse è una di queste questioni che aveva disturbato Freud nella sua reticenza a porre la follia maniaco depressiva nel campo delle psicosi. In modo più concreto, sapete bene che quando ci prendiamo cura dei pazienti maniaco depressivi, non ve ne posso parlare in modo preciso, ma è possibile seguire dei pazienti che fanno delle professioni come le nostre. Ho seguito degli insegnanti di altissimo livello, per esempio una donna che di tanto in tanto aveva degli episodi maniacali e per rompere le palle a suo marito comprava dei cani Dalmata e ne comprava cento e così rendeva suo marito incavolato, aveva degli stati maniacali veramente estesi e poi quando stava meglio mi faceva dei corsi di filosofia - veramente incredibile. Ho seguito anche dei medici, ma anche dei chirurghi di alto livello, che avevano responsabilità, nei loro Servizi, molto importanti, e avevano veramente degli episodi psichiatrici seri, ma avevano l’intelligenza di sapersi fermare e ricominciare quando erano in grado di praticare l’esercizio medico. Quindi questo per dire che l’osservazione di Aristotele è completamente giusta, anche, non soltanto per il caso di geni assoluti, ma la malattia maniaco depressiva può accompagnare la vita di persone che hanno lavori pieni di responsabilità, cosa che è possibile, ma molto più difficile nel campo generale delle paranoie. Ci sono delle forme di paranoia di cui potremmo discutere, ma questo è improbabile nel campo delle schizofrenie. Quindi la questione, posta da Aristotele, tanto tempo fa, resta giusta. Come è possibile che qualcuno possa attraversare delle vere e proprie follie e mostrarsi così coerente e perspicace, ossia proprio vicino a fare delle scoperte in altri momenti, in altre attività della sua vita. Non dimenticate quindi che, quando date il nome ad una malattia, è vero date il nome di un’entità medicale, ma che non dice nulla della posizione del soggetto rispetto a questa entità, bisogna stare attenti a questo. Questo per ripetere che la psicanalisi, la psichiatria, non sono delle scienze esatte, non sono come delle perfette descrizioni botaniche, il nostro lavoro non è quello di descrivere un fiore o un altro, noi ci interessiamo a cosa il soggetto fa con questi petali, con questi fiori, questo è tutto il nostro interesse e non soltanto il nome della malattia, dell’affezione. Giusto un piccolo inciso, una parentesi, non dimenticate che una psicanalista di Vienna, inglese, un po’ bipolare, insomma era tedesca diventata poi inglese, che si chiama Melanie Klein, ricordate non parla di stadio ma di posizione. Lei che era stata formata dai più grandi psichiatri tedeschi, tra cui Carl Abraham, parla di posizione schizoparanoide, quindi descrivendo nel bambino una semiologia di tipo psichiatrico schizoparanoide. Non è da poco come descrizione, e non parla di stadio, ma usa il termine posizione, come poi dirà, posizione depressiva. É una vera e propria clinica, di cui Freud non si fidava perché la trovava troppo sfrontata dal momento che non aveva timore di discutere le questioni di Freud riguardo all’Edipo. E sapete cosa faceva Freud? La inviava a Jones per ascoltarla. E questo perché aveva una teoria dell’Edipo molto meno mitica, la sua teoria precoce dell’Edipo significa che ella non aveva bisogno del mito e Bion andrà a riprendere la stessa ispirazione. È appassionante vedere come nelle tradizioni della psicanalisi, il nome di una malattia è un’entità nosografica, ma allo stesso tempo interroga le posizioni soggettive. La storia della mania e della melanconia è importante per raccontare tutto questo.
Secondo punto, che resta complicato nella storia della psicanalisi, è ciò che Freud ha dovuto al suo amico e collega Carl Abraham, il primo a prendere in analisi pazienti maniaco-depressivi. E qui ci troviamo confrontati con un’altra lettura rispetto all’alienismo tedesco perché Carl Abraham si trovava a Berlino e ciò che lo interessava era l’apparente prossimità tra la nevrosi ossessiva e la melanconia. Forse ci può oggi stupire, ma anche questo va ricollocato nel suo contesto e non si può dimenticare che Carl Abraham era veramente un bravo clinico, fornisce molti esempi clinici, molti esempi della sua pratica, attraverso i quali giustifica questa prossimità. Il solco, in questo avvicinamento, è un motivo molto generale, ma che ritroverete sempre in Freud, è l’ambivalenza amore-odio, da cui poi avrete Eros e Thanatos, uno dei temi favoriti da Freud nella psicanalisi, ossia il fatto che il soggetto umano sia sempre diviso tra tendenze che sono apparentemente contraddittorie. Ed è Abraham che preciserà, ancora prima del testo di Freud Lutto e Melanconia, che in questo caso, appunto di mania e melanconia, ciò che Freud chiama libido regredisce verso lo stadio più primitivo orale, stadio che chiama orale cannibalico, perché gli psicanalisti riflettevano su tutte le fasi, su tutti gli stadi dello sviluppo della prima infanzia. I medici non si occupavano di questo tipo di problemi, e gli psicanalisti si chiedevano: “Ma come è possibile che i bambini arrivino poco a poco verso la sessualità dell’epoca adulta?”. E quindi hanno fatto questa ipotesi: stadio orale, stadio anale, andando verso l’ingresso della genitalità, di cui si parla ancora in psicologia. Ed è Abraham che suggerisce a Freud la sua idea che in fondo la libido del melanconico resta fissa, cioè la teoria della fissazione, fissa a questo stadio orale primitivo, cannibalico. Poi nello stesso testo di Freud, Lutto e Melanconia, c’è questa osservazione sull’intervallo: cioè quando il paziente non è né maniaco né melanconico, e quindi pone anche il problema, se non è né l’uno né l’altro, che cos’è in questo intervallo? Perché sottintende che non sia totalmente normale, che cosa diventa tra gli episodi? Resta ancora oggetto di discussione e di polemica. Freud e Abraham dicono questo: “Troviamo nei nostri malati ciclici durante l’intervallo, le stesse particolarità riguardo all’ordine e alla pulizia, la stessa tendenza alla caparbietà e alle sfide ostinate, in alternanza con una propensione normale alle concessioni e una bontà eccessiva e quindi le stesse anomalie nei rapporti con il denaro e la proprietà ai quali siamo abituati nella psicanalisi della nevrosi ossessiva.”
Capite bene la situazione imbarazzante in cui si è, insomma siamo negli anni in cui la psichiatria francese e pure tedesca, hanno separato la psicosi maniaco depressiva dalla psicosi. E questo è chiaro, sono state separate, distinte, ma stranamente. Freud con il genio di cui vi ho parlato stamattina, che mette in continuità nomi di malattia ma anche di esperienza umana, per esempio quella del lutto, si trova a che fare improvvisamente con una cosa estranea, con una stranezza che vi riassumo in questo modo. Insomma ho detto, come Carl Abraham, che non riesco a distinguere molto bene la nevrosi ossessiva da quello che gli psichiatri chiamano melanconia. È interessante, perché quando si va avanti e la cosa si fa più complessa ci sono dei punti ciechi di paradosso. Noi non volevamo scrivere questo, ma ci ritroviamo con una difficoltà ancora più grande. Se ad uno studente di psicologia, quando studia al terzo anno, che non va a fare il suo stage in un ospedale psichiatrico, ma soltanto alla Facoltà, gli danno il testo di Freud, impara ciò che Freud ha detto e che sembra dire che tra un ossessivo e un melanconico non ci sia differenza, che non è facile da distinguere. Essendo un bravo studente, superate gli esami e passate agli anni successivi e cominciate a fare il vostro stage presso l’ospedale e gli psichiatri mostrano dei pazienti melanconici ricoverati e cominciate a dire che non hanno molto rapporto con la psicosi. Bisogna che teniate presente questi problemi, ma senza risolverli immediatamente nella loro complessità. Perché la psicanalisi apre questioni che non sono proprio quelle della casistica psichiatrica, si tratta di altre questioni che riguardano la posizione del soggetto anche in malattie gravissime. Siamo dopo la prima guerra mondiale, ma non dobbiamo neanche dimenticare ciò che la guerra ha prodotto sugli psicanalisti, alcuni sono morti, molti erano fuggiti negli Stati Uniti. Ma entrati negli Stati Uniti, sono entrati nell’individualismo americano, piegando la teoria di Freud verso una teoria dell’adattamento e quindi dopo la guerra abbiamo trovato il nostro amico Lacan che si chiede: “Come posso trovare un po’ di ragione in tutto questo, se non sappiamo fare la differenza tra l’oggetto nella nevrosi ossessiva e la psicosi?”.
Quando mettete a confronto queste tradizioni, non siete più in grado di definire lo statuto dell’oggetto. Non è una questione teorica quella che si pone Lacan: se la clinica è separata, è necessario che abbia delle rappresentazioni del soggetto e dell’oggetto che modifichino questa clinica. E quindi poi tutti questi sforzi che conoscete, che vediamo nelle prime formulazioni di Lacan, La relazione d’oggetto, i grandi quadri nel seminario L’angoscia, in cui puntualizza cosa sia l’oggetto, e nel nostro campo di lavoro bisognerà attendere le puntualizzazioni di Marcel Czermak per avere un punto di arrivo semplice ma non semplicistico.
Una proposizione che condivido, a condizione di metterla a lavoro, potete ricondurre una malattia maniaco depressiva ad una nevrosi di transfert, perché nella malattia maniaco depressiva c’è un trattamento proprio dell’oggetto e un rapporto con l’Altro che, nemmeno nei migliori dei casi, sarà mai ricondotta ad una nevrosi di transfert, ossia, per dirlo più stupidamente, non trasformerete mai la psicosi maniaco depressiva in fobia, isteria o nevrosi ossessiva. Bisogna che ognuno elabori il proprio lutto su questo tipo di ipotesi, ma non vuol dire che non siano pazienti che non si riflettano nel transfert, non sono reticenti nel lavoro di transfert, e quindi è vero che, nel campo generale delle psicosi, essi occupano un posto particolare.
Avrei un terzo punto, se volete, mi ricordo ora che nel 1981 ero esterno, ero un giovane prima della specializzazione alla fine dei miei studi di medicina, e arrivo a fare questo stage al Servizio di Czermak nel 1980. E mi aspettavo di incrociare Lacan, ma gli infermieri mi dissero che Lacan era malato ed erano già sei mesi che Lacan non si vedeva. Perché sapete che Lacan veniva nel Servizio dove lavorava Czermak per la sua presentazione dei malati, lo ha fatto tutta la sua vita, e regolarmente veniva nel weekend, il sabato, per vedere gli effetti che la presentazione aveva avuto tra i colleghi. Si interrogava, lavorava con questi colleghi, questi amici. Nel Servizio avevamo dei pazienti maniaco depressivi, ero giovane e un giorno ho chiesto a Czermak: “Come capita che inizia questa follia circolare, perché vi è un tempo speciale?”. Per quel che mi ricordo Marcel mi disse che non ne sapeva molto. Sono passati gli anni, e ancora oggi sono obbligato a dirvi che non ne so ancora molto, ossia anche con Freud o Lacan non ne sapete molto, perché vi sia questa malattia che abbia questo tempo, è questa una particolarità forte e misteriosa. Ecco vi lascio queste ultime due idee, vi ho detto poco fa che c’è stato bisogno di attendere il diciannovesimo secolo affinché i medici si interessassero all’aspetto ritmico di questa malattia. Quello che però è certo nel progredire della cultura, tutti siamo molto meno sensibili al grande ritmo della circolarità del tempo, ossia l’organizzazione delle nostre città, della nostra vita sociale o familiare, vive molto meno a ritmo delle cose, così come era organizzata classicamente, ossia attraverso il tempo, le feste sacre. Ho letto recentemente un bel libro di uno storico su Roma antica, è impressionante il numero dei giorni che a Roma era consacrato alle feste, ai giochi. Ho trovato questo impressionante. Nella mia vita qualche volta festeggio il mio compleanno, insomma per i 60 anni abbiamo fatto una festa speciale, poi se c’è qualche matrimonio. Resta il tempo del lutto, che è meno condiviso rispetto al passato, oggi in Francia infatti danno due giorni di congedo per lutto, insomma vai e poi domani torni a lavorare. In particolare la concezione che abbiamo oggi del tempo sacro, ecco nel mio piccolo articolo ho proposto che forse se la mania e la melanconia avevano preso uno sviluppo più ritmico, tanto che più tardi avrebbero meritato il nome di follia circolare, è forse giustamente perché siamo in lutto noi stessi, la nostra cultura ha elaborato il suo lutto dopo tanto tempo, è in questo immaginario narrativo, cioè sacro scandito da ritmi. Quando andate in Africa insomma vi rendete conto che, in molti paesi così, il tempo è ancora molto inquadrato. Ma credo che noi stessi ci rappresentiamo la nostra vita completamente slegati da tutto questo al punto che ci interessa appena. E quindi credo che questo tipo di forclusione di questo immaginario narrativo forse crea delle forme maniaco depressive, forse crea la bipolarità, e quindi non è scontato che delle persone si trovano in stati d’animo approssimativi. Bisogna invece sapere a quale tipo di scansione del tempo siano ancorate come riferimento.
Carlo Albarello Potrebbe spiegare bene l’immaginario narrativo?
Jean-Jacques Tyszler L’immaginario narrativo, se per esempio andate nella Cappella Sistina, guardate, non le potete chiamare immagini, possiamo chiamarle immaginario perché fanno parte dello statuto della rappresentazione, ma è un immaginario narrativo perché racconta tutti i grandi misteri della cultura. Non si può dire che tutte le rappresentazioni riportino qualcosa di simbolico. Per arrivare a degli alti livelli che chiamiamo rappresentazioni simboliche, ossia dei grandi misteri: da dove proviene l’uomo, ma anche le questioni poste dai bambini, che cos’è l’amore, che cos’è la morte, che cos’è la filiazione, perché l’uccisione, tutte le grandi questioni venivano raccontate nei grandi cicli che la città veicolava. Per esempio a Roma, avete avuto questo periodo dei giochi circensi, nella Grecia antica, le rappresentazioni teatrali erano delle obbligazioni per i cittadini, anche gli schiavi dovevano partecipare. É questo che chiamo immaginario narrativo, perché creava delle forze simboliche, grandi feste, grandi rituali di lutto. Nell’antico Egitto ci si fermava per mesi per un grande lutto, che erano periodi di narrazioni incredibili e che non ha nulla a che vedere con un’ora, e forse è probabile che l’oblio o quasi la forclusione di questo tempo ritmico faccia ritorno forzatamente, come sempre, in qualche luogo, in questo umore maniacale o melanconico, che conosciamo. Ossia l’immaginario dimenticato fa ritorno in queste forme malate, o come esaltazione o come tristezza, perché non si sa cosa si è perso, insomma noi stessi dobbiamo fare un grande lavoro di ricerca di rilettura perché noi stessi non sappiamo che cosa abbiamo perso.
Carmela Gurnari Il Giubileo, per esempio, proposto dal Papa è da inscrivere in una forma di queste?
Jean-Jacques Tyszler Forse per coloro che si sentono più tradizionali e legati alla religione, forse sono ancora in contatto con forme del rito, ma questo non impedisce che all’interno della società ci siano dei ritmi sempre più specificati.
Carmela Gurnari E il fatto di questa ciclicità, del tornare dello stesso, stavo pensando, se ha qualcosa a che fare con il bisogno di tornare allo stesso posto, quella definizione di reale che abbiamo detto prima, perché in effetti è un mistero.
Jean-Jacques Tyszler E’ vero, affinché il reale torni allo stesso posto occorrono delle condizioni, oggi invece l’uomo moderno ha la tendenza a correre verso non sa che cosa, insomma mi incuriosisce vedere tutte queste persone che corrono invece di camminare tranquillamente.
Facciamo fatica, è vero anche per le nevrosi, per esempio al mattino, potreste ricevere a studio un nevrotico ossessivo classico, è un giovane paziente che si lamenta ogni giorno di bestemmiare, insomma un quadro simile a quello che Freud racconta come nevrosi ossessiva, e dopo potete anche ricevere una giovane sportiva che si lamenta di avere dei sintomi ossessivi, quindi gli stessi sintomi, ma senza nessun rapporto con il senso di colpa e senza niente a che fare con il debito nei confronti del padre, quindi senza nessuna deriva psicopatologica, quindi avete il disturbo senza il background, e se volete forzatamente interessarla l’ambivalenza non funziona, perché il paziente non capisce a cosa vi interessiate. Quindi avete una clinica classica e poi dell’ultramoderno, quindi sembra che, in un giorno di studio, passate apparentemente con le stesse parole, come con l’isteria. É difficile ancora rispondere alla vostra domanda, ma bisogna forse accettare che tutto questo si muova spontaneamente. Siamo nella posizione in cui tutto questo si sta producendo e quindi richiede a noi una cultura classica, cioè non si può dire a dei giovani che buttiamo via Freud, ma neanche si può dire loro che tutto è a disposizione, perché non comprenderanno come possono fare nella clinica. Ci sono dei colleghi che lavorano in centri per tossicodipendenti a Parigi, all’ospedale ci occupavamo di psicosi, e altri colleghi completamente altri che si occupavano di quelle che vengono chiamate le addiction. Nei Servizi per tossicodipendenti, dicono che la metà dei pazienti sono psicotici polidipendenti. E quindi le tipologie si vengono a mescolare e questo crea nuovamente dei problemi di diagnosi e soprattutto sono sconcertanti. Perché, come facciamo a lavorare, cosa dobbiamo fare? Quindi bisogna conoscere il nome delle malattie classicamente e quindi identificare una psicosi dietro ad una dipendenza. Ma questo non dirà perché oggi lo psicotico è in questo modo moderno e quindi scorre verso qualsiasi tipo di prodotto, e quindi perché i godimenti si mescolano così, secondo una modalità che non era normale nella clinica.
Carmela Gurnari A proposito di quello che diceva in relazione alla nevrosi ossessiva, stavo pensando a quel discorso che si sente di Lacan continuista e discontinuista, la differenza rispetto all’ultimo Lacan, credo si riferisca appunto a tutta la clinica dei nodi più continuista.
Jean-Jacques Tyszler Preferisco dirlo in modo diverso. Freud era un pioniere, è l’inventore della psicanalisi, ha un trattamento nella clinica molto aperto, cioè può dare dei nomi, questa la chiamo isteria, questa invece una mania. Ma con Freud si può iniziare con una isteria, poi produrre una fobia, trasformarsi in una ossessione e poi diventare un caso di paranoia, come nell’Uomo dei lupi. Quando voi leggete l’Uomo dei lupi, Freud fa di questo caso quattro diagnosi. Per lui non c’è problema, Freud non ha lo strutturalismo di Lacan, non aveva interesse di andare in base alla nosografia. Lacan, attraverso una lettura strutturalista, dà delle invarianti, ossia se scriviamo questo in un modo, in un’altra scrittura clinica, lo scriveremmo in altro modo, non si può passare velocemente da una paranoia a una fobia, non si può passare da un’isteria ad una schizofrenia così. Questo è il Lacan strutturalista, non direi che l’ultimo Lacan, quello del nodo borromeo, non direi che torna Freud e che quindi tutto è possibile. Direi piuttosto che dà una lettura della struttura che guadagna forme di complessità e che accoglie le curiosità moderne che si vedono, che per il Lacan dei nodi borromei si possono vedere queste due strutture allo stesso tempo. La clinica resta strutturale, ma è meno divisa in quadri clinici verticali. Come pensa questo, lo si vede nel suo seminario su Joyce, perché come tratta Joyce non è come faceva prima, non sapremmo più se è folle o se non è folle, a volte è un po’ folle, ha dei fantasmi praticamente quasi perversi, ha parecchi fenomeni psicosomatici. Ma nel suo Seminario, la diagnosi non interessa a Lacan: Joyce riesce comunque a sbrogliarsela, e soprattutto gli ha permesso di fabbricare con tutto ciò quello che gli ha permesso di tenersi. Freud era all’epoca dei fondatori, e come tutti i primi grandi fondatori, certo individua delle novità, ma resta, come tutti i grandi fondatori, ancora aperto, non ha la pretesa di dare una casistica prestabilita. Con l’ultimo Lacan scopriamo anche che delle intuizioni della Scuola inglese possono interessarci, perché nella Scuola inglese che ci sia un elemento di psicosi, ma che non indichi tutti gli elementi di una psicosi, è banale, non è un problema, ma all’epoca questo non piaceva a Lacan - bisogna scegliere. Con questa lettura più complessa, oggi ci si interessa di più al modo in cui il paziente va a costituire il suo sintomo con l’utilizzazione tecnica delle tre grandi categorie, che Lacan aveva già dato, stranamente a partire dal ’52 - ’53, Reale, Simbolico e Immaginario, categorie che considera come euristiche, ossia epistemologiche, molto potenti. Soltanto attraverso queste tre categorie potete scrivere molti fatti clinici, cercando di vedere quale delle tre categorie prevale in quel momento. È una specie di teoria pratica è la descrizione del fatto clinico che non potete trovare nella psichiatria corrente, appartiene ancora alla psicanalisi, ossia descrivendo un fatto, chiedendosi qual è la parte del reale, quale l’immaginario e quale la parte simbolizzata. E se tutto questo si annoda, tiene insieme, oppure no.
Nel lavoro che ci ha presentato Eva-Marie Golder, del bambino, quando racconta, proprio parola per parola, il discorso dei bambini, usa le categorie lacaniane a servizio dei colloqui con i bambini piccoli. É uno strumento molto potente, non è un’invenzione astratta di Lacan. Freud ha i suoi strumenti, la proiezione e l’identificazione, ma anche Lacan ha i suoi strumenti, Reale, Simbolico e Immaginario, sono degli strumenti metapsicologici molto potenti che permettono di leggere un fatto clinico che sia classico e allo stesso tempo nuovo, insolito. Ci sono molte forme di godimento nuovo che non conosciamo, quando, da giovani parlavamo dell’anoressia mentale della giovane, oggi quelli che si chiamano disturbi alimentari, che non hanno nulla a che vedere con quel quadro clinico, hanno bisogno di essere interpretati non rifacendosi solo a riferimenti classici. Per cui ad esempio, il godimento passa attraverso delle invenzioni inventate dai popoli.
Spero di non avervi troppo confuso la mente, penso che potremmo tenere a mente semplicemente questo, che il genio è il prezzo da pagare del metodo freudiano, c’è un genio in Freud che fa sì che Freud non sia solo un semiologo, non si accontenta solo delle grandi descrizioni. Le descrizioni, al limite, lui le chiede ad altri, non aveva nessuna idea di cosa fosse uno schizofrenico, lui lo domanda a Breuer, ma questo non è il problema di Freud. Non ha bisogno di riconoscere uno schizofrenico, ha bisogno di identificare le cause, insomma che cosa si è prodotto nella mente affinché alla fine si è prodotto questo quadro clinico, la scienza può dire qualche cosa di questo, insomma si pone questioni che non sono semiologiche, quindi vedete bene come in Lutto e Melanconia si tratta di altissime questioni importanti, ossia di cosa l’uomo è fatto. Questa è la genialità di Freud, ancora oggi ineguagliata. C’è un prezzo da pagare, è che Freud apre così vagamente le questioni che noi stessi a volte ci perdiamo nelle risposte. Ma per Freud non è grave, lui riprende i problemi, siamo noi che ci perdiamo. È per questo che Lacan, dopo la seconda guerra mondiale, ha detto c’è bisogno che chiarifichi qualche punto di base, e quindi i punti che lui stesso voleva chiarire, ossia in fondo quale fosse l’oggetto della psicanalisi. Che cosa, da un punto di vista epistemologico, differenzia un soggetto da un oggetto, perché spesso utilizziamo una parola al posto di un’altra, siamo soggetto dell’amore o oggetto dell’amore? Insomma bisogna precisare un po’ queste questioni e cercare di trovare attraverso la realtà, per esempio Lacan dice non sappiamo cosa chiamiamo realtà, quella che voi con Freud chiamate realtà è fatta di tre categorie differenziate, a volte chiamate realtà quello che potete nominare ed è il Simbolico, talvolta chiamate quello che potete rappresentarvi ed è l’Immaginario, ma forse anche qualcosa che non può essere rappresentato e nemmeno detto ed è il Reale che non ha nome, che è molto più frequente di quello che si creda. È spesso il Reale che dice quello è la vita. Lo sforzo è di accogliere la genialità di Freud per renderla per noi più dialettica, più lavorabile. Se volete essere come Freud, bisogna non essere feticisti, nessuna azione della psicanalisi che non possa essere presa in considerazione, nulla vi è di sacro, quindi potete riaprire tutti gli assiomi e forse il percorso di genialità e quindi inventare nuove idee, nuove parole, quello che Lacan chiama un significante nuovo, può capitare, e quindi più che essere geniali, avere un colpo di genio che non è male. A Roma o ovunque.
Traduzione consecutiva a cura di Carlo Albarello.
Trascrizione a cura di Susanna Ascarelli e Valentina Bellini.
Testo non rivisto dall’Autore.
* Conferenza tenuta presso il Laboratorio Freudiano per la formazione degli psicoterapeuti di Roma, in collaborazione con l’École de Sainte-Anne di Parigi, il 9 aprile 2016 nell’ambito del Seminario L’Altro e i suoi confini.
** Jean-Jacques Tyszler è psichiatra e psicanalista presso l’École de Sainte-Anne di Parigi. E’ Membro dell’Association Lacanienne Internationale - ALI Parigi.
[1] S. Freud, Trauer und Melancholie (1917). Lutto e melanconia (1917) in Opere, Boringhieri, Torino, 1989, vol. 8: 1915-1917.
[2] JFP- Journal Français de psichiatrie, Édition érès, Toulouse.
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