dimanche 5 août 2018


Il lavoro di psicoterapia delle psicosi 

 

Farò un’introduzione che non sia troppo eclettica ma l’importante è che abbiamo uno scambio di lavoro, quindi non esitate a porre le questioni che vi sembrano più interessanti, cui cercherò di rispondere con l’aiuto dei colleghi tra di voi che hanno più esperienza. Dopo aver parlato stamattina, alla presentazione del libro di Fabrizio Gambini, insieme ad alcuni colleghi psichiatri, di ciò che è il cuore della psichiatria, penso che sia meglio conservare per noi l’approccio psicoanalitico alle psicosi, perché mi sono accorto che più noi facciamo attenzione a conservare il nostro taglio alle questioni, ciò che rende singolare il nostro modo di procedere, più abbiamo la possibilità di non essere inghiottiti dalla gestione o ingestione o digestione di significanti tuttofare. La psicoterapia delle psicosi, perché no, dopo tutto, ma penso che dopo stamattina sia un significante un po’ debole, che non specifica in maniera sufficiente l’approccio psicoanalitico. Propongo di iniziare con un piccolo inquadramento di ciò che costituisce un modo differente di accostarsi ai fenomeni psicotici, il modo di accogliere e fare i primi colloqui con un paziente psicotico da parte di un analista. Direi che c’è un primo tempo obbligatorio nell’incontro con uno psicotico che potrei chiamare un tempo di sistematica; mi rendo conto che i colleghi psichiatri non amano più le questioni di sistematica, ma quando voi ricevete un paziente psicotico non c’è altra scelta che valutare a vostro modo un certo numero di elementi di struttura, che vanno a determinare la fattibilità del lavoro. Sono elementi di sistematica effettivamente differenti da quelli che valutiamo nell’incontro con un nevrotico; in quelli che chiamiamo incontri preliminari, espressione che ha una connotazione un po’ sessualizzata, erotica, ci lasciamo in un certo senso guidare dal modo di presentarsi dei pazienti, guidare giustamente da quella connotazione, nel senso che bisognerà riuscire ad intendere nel loro lamento qualcosa di legato alla sessualità; il lamento, infatti, il sintomo che vi viene presentato, attraverso qualche associazione, più o meno inconsciamente, è legato al posto che ciascuno da nella vita a quella che chiamiamo la sessualità. Quando questo manca, e ci sono dei pazienti con cui succede, che lasciano completamente a lato la disponibilità ad interrogare quella relazione al mondo che è la sessualità, è probabile che non ci sia altro negli incontri successivi, che anche successivamente non si presenterà, e che dunque ci si fermi lì. Per ciò che è il ricevimento dei pazienti psicotici bisogna tenere conto che sono da cercare diversi registri, in particolare qualcosa su cui tornerò tra poco, che Lacan mette in evidenza nel suo seminario sull’identificazione, dicendo che nella psicosi non possiamo parlare di identificazione ma è preferibile parlare di unificazione. E’ per questo che stamattina cercavo di far sentire l’importanza di abbordare la psicosi dal lato della paranoia, e mettevo in evidenza tutta la ricchezza della paranoia, perché è proprio in questa clinica che si può cogliere meglio il processo dell’unificazione, il bordo che possiamo chiamare passionale, la passione nella psicosi, che Freud aveva già individuato come megalomania delirante. Un piccolo esempio banale: quando un paziente dice che è seguito dappertutto, esce è seguito, va in panetteria ed è seguito, va a trovare la madre ed è seguito, voi potete sentire la megalomania all’opera: cos’è questo oggetto che si muove come Uno, fino a che punto può arrivare. E’ un punto che dovete poter valutare, perché ciò che è praticabile nella psicosi è legato ai limiti di questa megalomania, di questa unificazione; de Clérambault all’epoca diceva che da una vera erotomania non se ne può cavare niente, diceva che è da rinchiudere, nessuno di noi è infatti in grado di seguire dei veri erotomani.
Quindi la prima questione è quella dell’Uno; l’altra, che necessita un lavoro di reperimento sistematico, coordinata alla precedente ma un po’ diversa, è di aver l’idea di ciò che possiamo chiamare la metamorfosi dell’oggetto, perché, come sapete, nelle psicosi, la maggior parte del tempo l’oggetto non è simbolico, non è un buco, se anche è un buco non è una mancanza e non si tratta neanche di un oggetto immaginario; ciò che crea la particolarità della psicosi, e dovrebbe interessare gli psichiatri, è che lì noi abbiamo a che fare con degli oggetti reali, “realisti”: il paziente sente davvero l’allucinazione, non la inventa, non ha un disturbo della percezione; uno psicotico sa bene che cos’è la materialità di una voce, così come sa che cos’è un vero sguardo, sa che ovunque vada può essere completamente trasparente allo sguardo, trapassato dallo sguardo, come sa quelle cinestopatie, quel bizzarro sapere del corpo, quelle curiose ipocondrie. C’è una tipologia di elementi preziosi che non appartengono che alla psicosi, un’inclusione, un’incarcerazione dell’oggetto che prende forma di materialità che nessuno di noi conosce, che non possiamo condividere; quello che dovete fare, come si faceva una volta in psichiatria, è accogliere questi sintomi in tutta la loro estensione e se il paziente esita a farvi credito di poterveli raccontare, bisogna metterci un po’ di noi stessi, quello che de Clérambault chiamava “manovra”, un termine che oggi non useremmo, non sarebbe capito, ne avremmo vergona, perché ci apparirebbe direttivo e ingannevole, manipolatorio appunto. Dunque c’è questo tempo preparatorio dedicato alla sistematica del paziente. Se non lo si fa, quello che il più delle volte succede è che i colleghi hanno paura, perché hanno il sentimento di aver a che fare con un reale che li sovrasta e allora consegnano volentieri questi pazienti alla psichiatria, oppure si verifica il comportamento inverso: il collega che non si fa troppi problemi invita a distendersi sul divano e il paziente inizia un episodio acuto di delirio. Dunque è una prassi particolare quella di seguire la psicosi, che secondo me rende onore alla psichiatria, perché lo psicoanalista in quel momento si appoggia su ciò che c’è di meglio nella psichiatria tradizionale, non ci sono molti altri appoggi oltre a questo tipo di sapere, ed è il motivo per cui Lacan ha tenuto, quasi fino alla morte, accanto ai suoi seminari, la presentazione dei malati all’ospedale di Sant’Anna; tutte le settimane faceva o la presentazione o una sua ripresa con un piccolo gruppo, per discutere di cosa si era trattato col paziente della settimana prima, di come andava, cos’era successo, quali preoccupazioni dava. Secondo punto: è un punto di lavoro che bisogna aprire tra di noi, perchè è tempo di riprendere con tranquillità le varietà, le specificità della catena linguistica dello psicotico. Noi viviamo per ora di ciò che Lacan ha portato nel seminario sulle psicosi, dove ha dato l’approccio generale ad ogni forma di psicosi, la forclusione della metafora delle metafore, che è il Nome del padre, per cui, a partire da quel buco, che è il buco reale primario, tutto il linguaggio dello psicotico, tutte le catene significanti, restano colpite, intaccate: è il cappello generale della psicosi; ma va da sé che se esistono tante varietà cliniche, per esempio all’evidenza uno schizofrenico non parla nella stessa maniera di un maniaco depressivo, è perchè ci sono delle specificità della catena significante secondo la tipologia clinica; ad esempio la fuga delle idee, il décapitonnage, la scucitura della catena significante nell’episodio maniacale non ha niente a che vedere con il modo in cui lo schizofrenico neologizza, distrugge, decostruisce la catena significante, come sentite che è ancora cosa diversa il postulato del passionale, dove tutta la follia, come nell’erotomania, si riduce all’unica frase “lui mi ama”, che non ha niente di sbagliato grammaticalmente, non è un neologismo, ma è una piccola frase capace di occupare trenta anni di una vita, tutta la vita psichica di una paziente. Qui troviamo il campo che Lacan ha aperto tra ciò che chiamiamo significante e il segno, dove possiamo intendere il processo della demetaforizzazione in un essere vivente, che può prendere clinicamente strade molte diverse; per questo è
un peccato prendere come paradigma della psicosi la schizofrenia, come accade spesso in psichiatria, perché è il peggiore, in quanto è estremamente ridotto il margine per una pratica del gioco dei significanti, non parlo ovviamente della pratica di accompagnamento sociale.
Altro punto che voglio solo aprire perché è un punto molto difficile è quello dell’interesse a fare la differenza nella dottrina tra il Nome del padre e il fallo simbolico, per la psicosi si parla sempre di forclusione del Nome del padre ma non si fa valere lo scarto che Lacan si è molto adoperato a fare, distinguendo con cura il Nome del padre e il fallo; qui si apre una questione appassionante. Tutto il processo della metaforizzazione, il rilancio da un significante ad un altro è sotto la garanzia della questione del Nome del padre, ma non dice come uno psicotico si arrangia con la questione della divisione sessuata, questione che non cessa di presentarsi in forme molto diverse nella psicosi. Ci sono degli psicotici che bisogna mettere a tutti costi al riparo dalla questione sessuale e mi è capitato di proibire ad un paziente di entrare nel campo della sessualità, e ci sono degli psicotici che trovano riparo in una forma di coniugalità tranquilla, trovano lì un loro posto, si sistemano; la questione di ciò che divide per separare e separa per dividere è una questione che ha a che fare con il fallo mentre non ha molto a che fare con il gioco della metafora; quello che chiamiamo fallo in psicoanalisi garantisce certe operazioni logiche fini, del tipo di come riceviamo un significante padrone e come questo si iscrive nel corpo, si incarna, come il significante si fa carne. Faccio un piccolo esempio, di una ragazza di 20 anni che ho visto nel corso di una presentazione in ospedale e che era già arrivata alla decima operazione di chirurgica estetica sul viso, per modificarne a poco a poco i tratti; un collega mi aveva avvertito che la ragazza non sembrava folle, parlava molto bene, c’era indirizzo, c’era discorsività, c’era dialettizzazione all’interno delle sue frasi, non c’era bisogno di andare a cercare delle particolarità della sua catena significante, non ce n’erano. Quando l’ho ricevuta mi sono accorto che questa ragazza polemizzava “realmente” con le due parti della sua filiazione: di padre ebreo e madre congolese, il suo lavoro da qualche anno era di cancellare sistematicamente i tratti immaginari legati alla sua filiazione, come per esempio il naso ebreo o i tratti negroidi delle labbra. Ciò che intrigava con questa paziente era che non era facile apprezzare la sua posizione clinica di struttura, sembrava molto matta ma non si capivano gli elementi per cui lo era. Alla fine, cosa faceva? stava trattando il suo corpo come Lacan cerca di trattare la questione del tratto unario, di cui dice che è il significante che diventa carne e ne distingue due bordi, un bordo di materialità e poi, cosa che gli interessa per seguire Freud, un bordo significante, per cui la materialità prende dignità, si eleva al rango di significante. E’ appassionante il lavoro con una giovane paziente così, perchè a suo modo lavora con la questione del tratto unario, dicendo lei stessa che sono i tratti che ha ricevuto dall’A/altro. Si chiede: che cos’è allora un tratto? I tratti ricevuti sono un significante padrone, cioè un significante? o sono un tratto di reale, per cui ne posso fare quello voglio, su cui posso ad esempio intervenire chirurgicamente, distruggere? A suo modo la ragazza lavora la questione dell’identificazione al tratto, molto sfortunatamente unificando, cercando di fare uno con l’unificazione e affidandosi al chirurgo per essere fatta tutta. Ci sono casi così, e casi più incastrati nella realtà sociale, ad esempio in Brasile le ragazze a 16 sono già tutte rifatte. Casi così sono più sotto la dipendenza del significante fallico, cioè è la logica complessa indotta dal significante fallico che in questo caso viene stravolta, piuttosto che massivamente la questione della forclusione del Nome del padre, il che non toglie che la paziente a poco a poco scivoli verso una situazione di follia.
Ci sono dei livelli molto differenti nella psicosi, che rispondono a operatori logici differenti. Lacan parla di tre operatori, il Nome del padre, il fallo, e S(A/), significante di A barrato, che di solito fa riferimento all’incompletezza di ogni sistema di sapere, di ogni sistema formale e che in alcuni seminari Lacan avvicina alla questione del padre morto, perchè la metafora del padre Lacan l’ha fatta lavorare in logiche diverse. Al punto in cui siamo nel lavoro collettivo è giusto che possiamo riflettere sulla formula della forclusione del Nome del padre, che ci si presenta in forma un po’ troppo chiusa, perché è vero che il difetto è sempre lo stesso, per cui i colleghi stamattina parlavano de “la” psicosi, ma questa definizione pur essendo giusta è un po’ ubiquitaria, vale per tutti i casi, e, come diceva Freud, non dice niente delle varietà cliniche. Ricordate di quando Freud discuteva della melanconia con Abraham, il quale gli proponeva di spiegarla col sadismo anale, Freud diceva che era giusto ma era ubiquitario, valeva per tutto e non diceva niente, mentre per poter afferrare una questione complessa e introdurre una gerarchia tra i problemi, lui aveva almeno bisogno di tre fili, quello economico, topico e dinamico. Sul punto che voglio ora affrontare andrò un po’ in fretta perché ho dato un articolo al bollettino italiano intitolato L’Uno e l’oggetto nella psicosi (Lettera italiana n°3), a cui potete fare riferimento. Lì avevo insistito su un punto che mi pare importante, e cioè che nel lavoro con uno psicotico, nonostante l’entrata nella sistematica come vi ho appena detto, l’analista non può mai identificare in quale spazio clinico si colloca; è un punto a cui tengo molto perché nel nostro campo, quello lacaniano, per parlare delle psicosi abbiamo abbandonato lo schema narrativo, che è quello che usiamo abitualmente per raccontare qualsiasi storia: è incominciato così, si è sviluppato così, s’è metabolizzato più tardi grazie a questo e la conclusione che ne traggo è questa. Questo a mio parere è finito, e del resto Lacan non l’ha mai usato; lo ammettiamo per la nevrosi, per quanto sia un po’ stupido, perché quando parliamo della nostra vita ne parliamo in modo narrativo, ma vi sfido a descrivere il caso di uno psicotico in modo narrativo, non è possibile. Quando voi seguite il paziente su un bordo, per esempio quando voi lo seguite nel modo in cui procede sull’Uno, non avete più nessuna idea di cosa si prepara sul lato dell’atto e dell’oggetto; se voi lo seguite sul lato delle metamorfosi deliranti non avete idea di cosa gli succeda a livello degli orifizi del corpo, dell’oggetto. Quando noi parliamo di fenomeni elementari, deliri e tentativo di guarigione, come diceva Freud, è “un modo di dire”, quello che ci interessa è di ritrovare dei riferimenti noti, quello che crediamo essere il nostro sapere: in quel momento non identifichiamo proprio niente, non sentiamo più niente, nessun tratto nuovo, nessuna parola inudita ed è come se dicessimo che lo psicotico non inventa, non fa che riprodurre, come se la clinica non fosse che una vasta verifica del già noto. Bisogna che ci mettiamo d’accordo su questo paradosso di partenza e cioè che la clinica della psicosi è come la luce, per prendere la metafora della relatività: è insieme onda e corpuscolo, è Uno e oggetto, quando vi spostate a seguire la questione dell’Uno non potete più seguire quella dell’oggetto, se vi spostate nel mondo del corpuscolo lasciate e non intendete più niente della questione dell’identificazione. Conoscere questo limite che è dato alla nostra percezione è molto importante per chi lavora con la psicosi, perché l’analista della psicosi non può non sapere quanto il suo sguardo sia restrittivo, non sa quale posto ha nella mania, in quale è digerito in una melanconia e nonostante la forma di coagulazione che avviene grazie al transfert, anche lui, come il suo paziente, è frammentato in luoghi eterogenei uno all’altro. Insistito molto su questo perché è l’idea che mi sono fatto della specificità del nostro incontro con le psicosi, fatto di limiti e incompletudini obbligatorie.
L’altro aspetto che voglio affrontare riguarda il fatto se abbiamo avanzato un po’ nel lavoro con le psicosi e grazie a quali strumenti; per prima cosa c’è un paradosso che voglio sottoporvi, ed è che le parole che Lacan usa, che sembrano appartenere alla teoria, sembrano concetti: pulsione, lettera, oggetto, significante, queste parole, se le osservate bene, sono a tutti gli effetti gli operatori della pratica, non ce ne sono altri, non è necessario andare a cercare delle parole nel materiale, al di fuori di quelle che Lacan mette sul tavolo. E’ così, ma a condizione di essere sensibili - questo è facile da dire ma non da fare - al fatto che questi operatori devono essere lavorati nella triplicità dei registri fondatori che Lacan non ha mai smesso di lavorare nel corso di tutta la sua vita: Reale, Simbolico e Immaginario. Quando Lacan propone un operatore, questo è già un operatore della pratica, dal momento stesso in cui potete aprirlo alla triplicità che implica. E’ cosa difficile da incarnare nella pratica, ma un esempio semplice, che parla da solo, è quello con cui Jean Bergés, che è stato il nostro specialista della psicoanalisi infantile, parla della posizione della lettera nel bambino; il bambino, diceva, entra nella lettera, entra con il corpo nella lettera, e in questa esperienza si può cogliere quanto Lacan propone con i tre registri, perché la lettera è immaginaria, ha la sua forma, il suo grafismo, ha la sua dimensione simbolica perché le lettere bisogna metterle in ordine, fanno serie, e poi c’è la dimensione reale, su cui Bergés ha insistito molto e che accordava quasi alla motricità del bambino, al coinvolgimento del bambino nella motricità della scrittura. Chi si occupa di psicosi infantile sa quanto è importante lavorare con il bambino il momento molto particolare in cui s’impegna nella scrittura e quanto questo tempo di attraversamento della lettera avrà i suoi effetti nella strutturazione futura a seconda che sia avvenuto in maniera più o meno corretta. Voi vedete un operatore, quindi, che sembra teorico ma che ha delle ripercussione del tutto pratiche, perfino nel reclutamento del personale, perchè in un servizio di psichiatria infantile, servizio in cui si possano lavorare le questioni che ho appena detto, un bambino in psicoterapia sarà seguito nello stesso tempo anche in logopedia e psicomotricità, e non per motivi teorici ancora mai formulati ma perché bisogna siano sollecitati i tre versanti della lettera. La psicoanalisi è questo, è semplice in fondo, una volta reperito un operatore, cerca di metterlo in funzione nel lavoro. Temo di essere stato oggi ancora molto narrativo, è molto difficile anche per chi è avvertito non semplificare troppo, col rischio di aver dato un’idea schematica del rapporto tra i tre registri della lettera. Ho parlato qualche tempo fa del caso di un ragazzo che presentava disturbi dell’identità sessuata fin da bambino e nello stesso tempo aveva delle difficoltà scolari massive: presentava soprattutto due disturbi, una scrittura assolutamente illeggibile e nella matematica era capace di scrivere un enunciato e il suo contrario, poteva mettere “più” o “meno” indifferentemente, per lui era uguale. Prima parlavo di come l’operatore fallico possa intervenire nel vivente a livelli diversi dell’esperienza, per lui probabilmente interveniva in modo massiccio a livello dell’identità sessuale perché si viveva come una bambina, ma ne possiamo ritrovare le conseguenze fin nel carattere “non tenuto” della sua scrittura e nella sua concezione della matematica. Come lavorare con un bambino così? da un lato lo abbiamo impegnato in lavori di logica, senza psicologizzare assolutamente la sua posizione, e dall’altro io ho continuato a indagare con una certa delicatezza le questioni dell’identità sessuale; non è certo guarito del suo disturbo ma ormai ha quasi trent’anni e non si è cristallizzato come transessuale, come è abituale, per il momento la problematica dell’identità sessuale in lui sembra aver trovato una certa aerazione. Non sono in grado di farvene la teoria per i motivi che vi ho detto prima, non conosco il collegamento, la sintesi dell’intervento che è stato possibile effettuare, della posizione del fallo nell’identità sessuata, nella questione della logica matematica e nella tenuta della scrittura; non mi è possibile, so solo che questo bambino ha lavorato lungo questi tre bordi della lettera. Non è per niente che
nella tradizione clinica di lavoro con i bambini sono previste forme di intervento a livelli diversi, di cui non abbiamo tutta la teoria ma che sicuramente riguardano degli operatori, qui semplicemente la questione della lettera. C’è un altro aspetto molto interessante e molto complicato che riguarda la possibilità di lavoro con il significante come tale, in casi di psicosi molto gravi. Mi piacerebbe che un giorno se ne possa parlare a partire da dei casi, perché in alcuni psicotici c’è una certa disponibilità a forme di lavoro con i significanti. Quelli di noi che hanno potuto lavorare con pazienti di questo tipo, filosofi, critici d’arte, scrittori, si chiedono come sia possibile che uno psicotico presenti, da un lato, deliri così costituiti e stabili e dall’altro possa portare molto avanti il lavoro della ricerca con il significante, il che non toglie nulla alla diagnosi di psicosi; parlo beninteso di pazienti che nella loro attività significante non producono dei deliri nella scrittura. Penso ad una giovane paziente completamente folle che scriveva regolarmente dei begli articoli per delle riviste d’arte contemporanea; sono questioni di divisione nella psicosi che abbiamo difficoltà non ad accogliere, perché le accogliamo, ma a renderne conto, non sappiamo su quale pista ci portano; quello che è intrigante, ma bisogna fare attenzione per ciò che dicevo prima, è che quando siamo su un bordo e seguiamo un filo, c’è tutto un altro campo, un altro bordo, un altro spazio che ci sfugge completamente, ed è questo che è doloroso. La cosa terribile per questa paziente, ma io me ne accorgevo solo dopo, è che quando era al meglio della sua produzione letteraria, della sua invenzione significante, sovente aveva delle crisi e veniva ricoverata; l’oggetto infatti continuava in modo sotterraneo a fare il suo lavoro e scatenava a un certo punto un episodio persecutivo o erotomanico, che mi sfuggiva nonostante la ricevessi tre volte alla settimana; il fatto è che non si può fare la sintesi tra l’onda e il corpuscolo. La ragazza era stata invitata ufficialmente all’ambasciata di un paese uscito da poco dal blocco dell’Est, per aver fatto la bella traduzione di un poeta, che non era ancora mai stato tradotto, un poeta che era stato internato come schizofrenico e che si era rivelato uno dei più grandi poeti di quel paese; in questa occasione, nel momento più alto di un riconoscimento onorifico per il suo lavoro, la paziente iniziò un episodio di erotomania nei confronti della moglie dell’ambasciatore; vedete il dramma di questa ragazza: forse perchè quell’onorificenza non poteva essere da lei ricevuta come un tratto significante, ecco allora che l’oggetto d’amore si scatena in un’erotomania omosessuale. Non l’ho più sentita per un mese e poi ho saputo che era stata ricoverata; vedete, si segue, si sostiene, si incoraggia al meglio la produzione significante, fino al momento più alto, e nessuno è in grado di prevedere il momento della crisi, prevenire, far qualcosa. Tuttavia è importante se riusciamo a comprendere e a descrivere tutta quella zona in cui la metafora non si riduce al segno, le forme cioè in cui per alcuni psicotici il significante è disponibile e può essere lavorato. E’ per questa disponibilità che dobbiamo dire ai colleghi psichiatri che nella psicosi c’è posto per un approccio psicoanalitico, perché uno psicoanalista conosce i limiti che la struttura impone al lavoro, più di un altro ha potuto prendere la misura dell’incompletezza del suo sapere, più di un altro sa di non poter far finta di rendere conto di un successo perché più di un altro sa di non poter conoscere qual’è stata la sua parte, però ugualmente più di un altro conosce la disponibilità di lavoro della lingua stessa, le risorse interne alla lingua, che Lacan scriveva in maniera bizzarra “lalingua”. Ho sentito stamattina che non c’è più che lo psicoanalista ad accettare di fare del nostro lavoro in maniera principale un lavoro del significante, i colleghi psichiatri non credono più che la lingua viva, quindi non l’ascoltano; noi stessi del resto cediamo alla parte di equivocità del significante, nelle cure siamo ancora troppo chiacchieroni, interpretativi, sotto la pressione
della sordità al significante, ma siamo disponibili con questi pazienti ad ascoltare e fare con loro il cammino che sarà possibile.
Avrei potuto prendere altre parole della teoria, ad esempio la pulsione. Ho molto lavorato con Marcel Czermak sulla posizione della pulsione nella psicosi, posizione che interroga il rapporto tra il bordo della grammatica della pulsione e il corpo, che per Lacan è il bordo del reale del corpo, cos’è un corpo nella psicosi. Ci sono in molti giovani pazienti forme di paradosso ed invenzione dal lato della pulsione, cosa del resto ben conosciuta nella psichiatria, dove è tradizione nei servizi più seri proporre ai pazienti atéliers di teatro, poesia, musica, pittura, scultura; da dove viene questo sapere se non dall’aver notato il paradosso con cui i pazienti trattano la pulsione? lo stesso che presenta una completa despecificazione della pulsione, quella orale per esempio, lo stesso che mangia cicche in cortile, è in grado di fare invenzioni formidabili nel campo della pittura; un sapere su queste questioni, sulla capacità di invenzioni, è già li, è un sapere comune, un sapere che circola. Un giovane che seguo da 5 anni per una psicosi infantile molto negativista, per ragioni che non so spiegare perchè non capisco, è diventato un genio della fotografia ed è strano perchè la fotografia moderna richiede molta tecnica al computer e questo ragazzo a scuola era veramente uno zero in matematica e scienze; per ragioni oscure ha sviluppato per conto suo un gusto dello sguardo e della materialità che gli ha riconosciuto necessaria; è considerato un vero talento della fotografia dalle migliori agenzie fotografiche, è cercato da persone famose per avere dei ritratti ma il dramma è che il suo negativismo è tale che alla fine non riesce a cedere l’oggetto, la sua opera, per cui i contratti vengono rotti. Onda e corpuscolo, qui piuttosto corpuscolo: a 18 anni lo avremmo detto schizofrenico deficitario, scopre in maniera isolata il suo oggetto sguardo, che io ho incoraggiato naturalmente, ma resta pesantemente svantaggiato per il suo negativismo. Per terminare, spero di avervi fatto sentire che tutte le parole come operatori sono interessanti, illuminanti, ma non tutte sono lavorabili in ogni caso, con ogni paziente, in ciascuno c’è da reperire il tratto che gli è peculiare.
Discussione
M.Fiumanò: Hai parlato, riguardo all’intervento con i bambini, di un lavoro con la lettera secondo i tre registri; mi chiedevo se interessa la lettera parlata, o solo quella scritta. La domanda più precisa però che volevo farti è se l’intervento del logopedista, dello psicomotricista e dello psicoterapeuta possono svolgersi contemporaneamente o richiedono una modulazione nei tempi, ad esempio per permettere alla psicoterapia di iniziare a smuovere qualcosa; penso al caso di un bambino di 8 anni, che non parlava ma non credo che fosse autistico e che ho visto con la mamma per qualche tempo; quando a un certo punto si è lasciato sfuggire qualche parola poco intelleggibile, la madre ha subito detto che era impossibile che parlasse e ha chiesto l’intervento del logopedista che inizialmente avevo anche prospettato, richiesta che ho sentito come il rifugiarsi in un intervento tecnico per evitare di interrogarsi sul suo rapporto con il figlio. J:J:Tyszler: Mi sembra piuttosto interessante il caso inverso, i casi cioè di bambini seguiti per lo più in istituzione da queste professioni appassionanti, che mettono in ordine il corpo e hanno un saper fare che la
psicoanalisi non ha; è importante che questo tipo di lavoro sia annodato con quello della psicoanalisi, che lavora un altro bordo, che sa che il corpo per quanto si faccia è sempre legato al fantasma e che un bambino che ha difficoltà reali di grafismo o di locuzione lo deve certo all’oggetto che condivide con la madre, a questo tessuto fantasmatico comune; mi sembra cioè importante che in un servizio per i bambini sia quasi un fatto naturale che la psicanalisi sia presente, perché pensa i differenti registri della lettera, sa che vanno lavorati tutti e non dimentica che un corpo nelle sue funzioni non rilascia semplicemente la sua verità. Nelle cosiddette riunioni di sintesi, ad esempio, non c’è nessuno che fa una sintesi intellettuale, teorica, di ciò che fanno le differenti figure professionali, ciascuno resta nella sua pratica, ciascuno non segue che un aspetto; soltanto il bambino, se mai fosse possibile, potrebbe fare una sintesi. In Francia, a causa di tutte le teorie dell’apprendimento, sono molte le figure professionali che sono sollecitate a venire in appoggio ai servizi di aiuto all’infanzia. Penso che in Italia sia anche così, forse un po’ di meno?
M.Fiumanò: Il fatto è che in Italia non è prevista la figura dello psicoanalista; per questo bambino c’è stato uno psicomotricista, un insegnante d’appoggio e poi il neuropsichiatria infantile, ma non è stato mai seguito da uno psicoanalista prima di essere indirizzato a me.
J:J:Tyszler: La psicoanalisi può essere eminentemente pratica, è un peccato che non sia presente nelle istituzioni, perché ha un sapere su come annodare i differenti bordi della lettera. In Francia, per ora, nonostante il discorso sociale sulla psicoanalisi, il responsabile di un servizio infantile è sempre uno psicoanalista, il che vuol dire che la direzione considera che la psicoanalisi garantisce pur qualcosa. Non bisogna lasciarsi intimidire, la psicoanalisi ha imparato molte cose che possono essere proposte e messe in pratica, compreso sulle psicosi infantili, sull’autismo, non solo per la diagnosi ma anche per la cura; un ortofonista non può seguire da solo un bambino psicotico, non è il suo lavoro, ci sono differenti saperi, e ci sono dei saper fare con rango differente; si può fare una gerarchia, non è vero che un sapere vale l’altro secondo una forma d’ecclettismo. C’è quindi spazio per aprire un servizio a Milano!
M.Fiumanò: Nell’istituzione è passata l’idea che questi bambini vadano seguiti da un’équipe, ma nel caso che portavo è stato solo a 8 anni che questo bambino è stato inviato per una psicoterapia nel privato; mi chiedevo se la richiesta di una logopedia non poteva essere letta come resistenza da parte della madre.
J.J.Tyszler: Direi proprio di sì.
S.Morath: Sollecitata da quanto hai detto, voglio ricordare il caso di un bambino psicotico seguito per 8 anni, inizialmente sulla questione dell’oggetto orale, lavoro durante il quale il bambino ha scritto un libro di ricette di cucina; a un certo punto, dopo circa 6 anni, è iniziata una crisi grave, che mi fa pensare a quanto dicevi sull’oscillazione tra l’oggetto e l’Uno, e alla frase di Lacan per cui l’inconscio nella psicosi è a cielo aperto. Il bambino ha iniziato a camminare tutto storto con un braccio irrigidito, e si è dovuto ricorrere ad un intervento psichiatrico; la terapia è continuata su un altro registro, si era prodotta una certa divisione, per cui il bambino raccontava di personaggi che avevano una doppia faccia, come Msr J e il dr H, sembravano essere qualcuno e poi si trasformavano in qualcun altro; non scriveva più, le lettere erano disorganizzate, ma sembrava passato sulla questione dell’Uno e della divisione. Mi sono autorizzata alla manovra, come dicevi
prima, di fargli vedere un foglio piegato in due, che chiuso mostrava una faccia e aperto un’altra, dicendogli che per lui era di questo che si trattava. Prima lavorava sullo “stesso”, l’oggetto orale, senza divisione, poi c’è stata una divisione e forse una dissoluzione dell’oggetto orale, perché a quel livello il bambino prima funzionava meglio e la lettera stessa sembrava essere caduta; mi sono chiesta se nella prima fase la lettera fosse iscritta nel corpo, perché si è verificato come un arresto, e dopo la lettera stessa era impegnata in un altro modo; il bambino che prima era molto aggressivo si è tranquillizzato, è vero comunque che anche i farmaci hanno avuto il loro effetto, ma quando è passato sull’altro registro, dell’unificazione, questo è stato al prezzo della perdita di qualcosa a livello del primo.
J.J.Tyszler: C’è tutta una clinica, che tu ricordi, della frontiera tra le psicosi infantili in bambini molto piccoli e le sindromi postautistiche, dove i buchi del corpo non sono ben vettorizzati, ad esempio fanno pipì a letto, mordono, presentano disturbi dell’oralità; il passaggio tecnico di una terapia, che comprende anche cose molto semplici, come far giocare i bambini con le lettere che compongono il loro nome - anche se non sanno legare le parole, tuttavia nel disegno possono giocare con le lettere che le compongono - questo lavoro, dunque, poco per volta vettorizza il loro corpo, per cui potremmo dire che il corpo si socializza; non è che questi bambini non sono più psicotici ma qualcosa ha fallicizzzato il corpo, i cui oggetti risultano velati, mascherati, e grazie a questo i bambini possono essere scolarizzati nelle scuole di quartiere; sono cose complesse di cui non si sa la teoria ma si sa che hanno un effetto circa un taglio dell’oggetto, sono cose che chi lavora con questi bambini conosce molto bene.
R.Miletto: In una discussione con i colleghi che frequentano la Scuola, ci si poneva la domanda se un lavoro di questo tipo è valido anche con gli adolescenti che presentano sintomi anche gravi legati al corpo, una forma di terapia che consenta un rimaneggiamento degli oggetti pulsionali, degli orifizi del corpo, che forse c’è l’esigenza di riprendere a questa età dello sviluppo.
S.Morath: Ti chiedo allora se il lavoro con gli oggetti del corpo porta più verso il fantasma o verso il Nome del padre?
J.J.Tyszler: Con gli adolescenti penso si debba mirare al punto di arrivo più completo di un’analisi; con l’adolescente che presenta degli agiti sul corpo, che si scarifica, si taglia le vene, si lascia andare a violente ubriacature, sembrerebbe trattarsi, come con i più piccoli, di un appello alla mobilizzazione dell’istanza fallica nella sua dimensione d’ordine, bisogna ben tenersi in piedi, e di limite, non si può far tutto ciò che si vuole; ma credo che sarebbe un errore ridurre a questa dimensione il disturbo, perchè un adolescente mobilizza in fondo, in maniera magari bizzarra, tutte le questioni cruciali della psicoanalisi: perché siamo appesi alla legge del padre, per es.; un adolescente ha il talento di interrogarci su questioni che per noi sembrano acquisite; l’essere diventato oggetto dell’incontro sessuale può far vacillare l’economia del fantasma, perché in quel momento il fantasma è il suo, non più quello che condivideva con sua madre o suo padre. Quando lavoriamo con gli adolescenti è necessario che pensiamo di trattare le questioni che pongono come le più alte della psicoanalisi, anche se presentano i disturbi più idioti bisogna pensare che si stanno interrogando sulle cose più importanti: cos’è il desiderio umano, che cos’è ciò che chiamiamo amore, perchè le società sono organizzate, almeno finora, secondo la legge del padre, come intendono i significanti che hanno
ricevuto; ad es. per quelli che sono di famiglia araba, cosa vogliono dire per loro i significanti legati allo loro origine, hanno idea di qual’è la loro archeologia, il tragitto organizzato dalla loro cultura e dalla famiglia. In effetti i disturbi che presentano molti adolescenti paiono fenomenologicamente vicini a quelli dei bambini di cui abbiamo parlato, ma non potete ridurre il lavoro con loro ad una psicoterapia, e cioè restare alla questione fallica.
R.Miletto: E’ interessante che tu definisca la psicoterapia come il lavoro che resta sulla questione fallica.
J.J.Tyszler: Ma sì: con i bambini è formidabile poter fare una psicoterapia, consentire la vettorizzazione dell’istanza fallica, non è affatto vergognoso, però la questione del desiderio, del fantasma e dell’etica, queste in un adolescente sono questioni ormai presenti e bisogna dunque trattarle nel modo più alto possibile. Io, quando ricevo un ragazzo, anche nelle istituzioni, dico sempre che sono uno psicoanalista e non è per parlare di me, potrei dirgli che sono il direttore del servizio, ma perché intenda che è a quel significante che gli propongo di agganciarsi, il più alto a cui si possa indirizzare. La clinica dei disturbi, dell’oralità ad esempio, alla fine non insegna niente, perché non è posizionata nella stessa maniera che per i più piccoli. Nel tempo in cui viviamo, nelle nostre culture che oscillano verso il matriarcato in rapporto all’Altro, il lavoro da proporre ai giovani è proprio la psicoanalisi, è quindi appassionante lavorare per conservarne il posto.
R.Miletto: Ma quando con una ragazzina che scrive sui muri, si taglia, beve, si lavora ad esempio, il fatto che l’interesse per lei di scrivere sui muri è di trovare e mettere alla prova un sostegno che sia stabile, non cedevole, non ingannevole - era stato choccante per lei ad esempio scoprire che le parole possono mentire - questo è un lavoro per mettere in posizione, in funzione, l’istanza fallica o no? E’ un lavoro di psicoterapia?
J.J.Tyszler: Non è detto; c’è un lavoro con la scrittura. Mi succede regolarmente di chiedere ai ragazzi di portare ciò che scrivono o di scrivere ciò che rimuginano, ma non è una psicoterapia, è un modo per dir loro che ciò che hanno veramente da vomitare sono le lettere del loro destino, ciò che non possono digerire, se vogliono, lo possono scrivere e leggere insieme; se il ragazzo acconsente, questo apre veramente alla soggettività, più che offrire garanzie falliche, apre a questioni importanti, intime, sul destino…; a volte arrivano a dire cose che non hanno mai detto, inventando per voi la regola fondamentale che bisogna dire tutto; anche i giovani che riceviamo nelle istituzioni, si comportano come andassero in uno studio privato; in effetti la terapia con gli adolescenti in un servizio per l’infanzia è la parte del lavoro che è meno psicoterapia. Non sono molto dotato per il lavoro con gli adolescenti, ma ho imparato molto dalle difficoltà che ho avuto con i miei figli a quell’età, prima con loro ero in effetti più nella psicoterapia, in una sorta di verticalismo. Il collega Jean-Marie Forget (N.d.t. Un suo libro è pubblicato in italiano: Questi adolescenti che ci fanno ammattire, Ed. Scientifiche Magi, 1999), che lavora molto su questi problemi, riceve nel suo studio privato anche i ragazzi che sono maggiormente nel passaggio all’atto, cosa davvero non facile, ma che dice l’importanza che ha per gli adolescenti un tipo di indirizzo e di lavoro che sia psicoanalitico.
D.Parafioriti: Vorrei che tornasse un momento su cos’è la manovra di cui parlava de Clérambault.
J.J.Tyszler: Sapete che Lacan amava molto de Clérambault, che considerava il suo maestro, penso perché in lui ci sono già i lineamenenti della questione dell’oggetto, in particolare dell’oggetto voce. De Clérambault ha teorizzato in un certo senso il modo in cui condurre i primi colloqui con pazienti psicotici; racconta, lo si può leggere nel suo libro, il modo in cui dispiegava fenomeni altrimenti difficili da cogliere; fa due esempi molto conosciuti, uno è sull’erotomania: come condurre il colloquio con una paziente affetta da psicosi passionale, per comprendere di cosa è fatta questa convinzione assoluta di essere amata e spingeva il dialogo molto avanti, per cogliere la struttura di questa posizione e vederne dietro i livelli di pericolosità; e poi, come interrogava la questione dell’allucinazione, come era capace di andare molto lontano per cercare le sottigliezze del fenomeno allucinatorio. Ciò che ha interessato Lacan è stato come un clinico può essere catturato dalla struttura, può entrare all’interno del dire del paziente, senza cercare di frenare, di riprendere un proprio filo, ma lasciandosi portare dalla sua barca; alcuni colloqui sono pubblicati e la cosa sorprendente è che hanno una struttura logica tale che sono stati portati in teatro; ripresi dagli artisti senza aggiungere nulla, stanno in piedi da soli, a dimostrazione della struttura dell’oggetto che cercava di sollecitare con quella che lui stesso ha chiamato manovra. Manovra per lui è quasi un lavoro chirurgico, un lavoro di scalpello, di bisturi, per seguire il lavoro che il paziente stesso fa sui suoi significanti, una esplorazione molto minuziosa cercando di trovare la parola precisa, fino a che il paziente sedimenta la parola giusta; in quel momento allora de Clérambault la prende per fissare la sua dottrina. Gli psichiatri forse oggi dimenticano che la clinica psichiatrica descritta da de Clérambault utilizza le parole dei pazienti stessi, non è lui che inventa la parola; sono i pazienti che parlano di eco del pensiero, che quando pensano qualcosa ritorna come un’eco del loro pensiero, come in montagna, solo che bizzarramente l’eco precede il pensiero. Anche Lacan non deformava ciò che gli veniva detto, ascoltava veramente tutte le modulazioni del significante che gli arrivavano, cosicchè una frase apparentemente anodina resta polarizzata nell’ascolto da tutta una serie di cose, che sono da intendere. Un piccolo esempio: ho ricevuto poco tempo fa una paziente di 18 anni che dice che ama molto la sua professoressa di filosofia e vorrebbe diventare professoressa come lei, frasi, come sentite, un po’ banali, ma a un certo punto dice che questa signora, lei, l’ama con tutto il suo cuore; in questa frase anodina, apparentemente banale, ho inteso che c’era qualcosa che non andava, in quel modo di dire “con tutto il cuore”, non so perché, forse perché lavorando con bambini più piccoli succede spesso che alla fine della seduta disegnino un piccolo cuore e dicano “dottore, vi amo con tutto il cuore”; detto da un bambino, suona in un certo modo, sembra andar bene, ma da lei…no; tralascio i dettagli, ma a un certo punto in effetti questa ragazza esplode in un episodio erotomanico, e saprò più tardi che è andata a casa della professoressa a fare una scenata, nonostante la presenza del marito, sviluppando poi una paranoia piuttosto grave. L’interesse per il lavoro di de Clérambault è per come, prima di Lacan, ha accolto il significante fino a intendere il punto in cui tocca qualcos’ altro.
R.Miletto: Una domanda che ci siamo posti con i colleghi della Scuola riguarda il tipo di lavoro che può favorire lo scompenso di una psicosi. La manovra di cui hai parlato ora consiste nel cercare con il paziente la parola giusta, quella che definisce meglio il fenomeno; se, rifacendoci all’esempio che hai portato, si fosse ripresa l’espressione “con tutto il cuore” sollecitando a dire qualcosa sull’aspirazione alla totalità, completezza dell’amore, spingendo piuttosto verso l’immaginario legato al cuore, all’amore, facendo appello ad un fantasma che non c’è nella psicosi, è lì che il lavoro può sfociare in un delirio? Qual è il lavoro che è sconsigliabile fare?
D.Parafioriti: Quello che mi interessava in ciò che ha detto di de Clérambault riguardava quel prestarsi a metterci un po’ di sé stessi; mi chiedo cosa voglia dire, forse metterci un po’ del proprio desiderio di sapere investigando, mentre in quel lavoro immaginario il terapeuta si mette davvero all’interno di una posizione di sapere.
J.J.Tyszler: Dopo tutto quello che avete detto direi che è importante parlare di approccio psicoanalitico alla psicosi, anziché di lavoro di psicoterapia con la psicosi; il problema che comporta il significante di psicoterapia nel campo della psicosi è che vi porta per forza ad ingiunzioni di senso, spesso di tipo sessuale; sarebbe come dire, ad esempio: “siete un omosessuale rimosso, non lo sapevate finora ma dovete con coraggio andare in fondo alla vostra questione” – sto facendo una caricatura - mentre l’interesse della posizione che Lacan ha trovato presso questi alienisti è che non si sa qual è il senso dell’oggetto di cui si tratta, mentre ciò che li interessa è che tipo di oggetto guida questi pazienti, che cosa li attira, e dirige la loro vita, sapendo che più si avanza più il senso si sottrae. Quando ad esempio si parla di erotomania, l’uomo che fa del bene, come de Clérambault chiama l’uomo che l’erotomane dice che l’ama, chi è? non si sa che cos’è, lei non lo conosce, non ha alcun rapporto con lui, alla fine, l’oggetto che lei cerca di nominare risulta inafferrabile: ciò che si produce è la marcia insensata della metamorfosi dell’oggetto. L’approccio sistematico delle psicosi è immediatamente meno psicoterapeutico perché obbliga quasi subito a qualificare totalmente insensato il rapporto all’oggetto, quindi il terapeuta naviga in uno spazio che non conosce. Mentre al contrario è facile scatenare un delirio in un paziente con un’entrata psicoterapeutica; dire ad esempio ad un paziente impotente che deve guarire lo rende subito matto, mentre se non ve ne occupate, non fate niente, non sapete cosa vuol dire, e vi occupate invece di tutte le bizzarrie che presenta, è più facile che resti in una forma di legame sociale. La scelta di un termine flette la posizione della pratica. Una cosa semplice che mi ha sempre molto colpito: quando vado ad una presentazione di malati in ospedale psichiatrico, quattro volte su cinque, i pazienti, anche se sono completamente matti, mi chiedono se sono psicoanalista; certo il mio arrivo non gli cade dal cielo, sono stati avvisati, ma è perché anche nel cuore della follia il valore delle parole conserva il suo interesse; e succede spesso, come con gli adolescenti di cui parlavo prima, che nell’incontro che poi abbiamo raccontano cose che non hanno mai detto ai colleghi che li seguono da anni; è proprio la posizione della parola, e del sapere che è legato a questa parola. Bisogna dunque tenere lo spazio per questa parola, anche in un’istituzione, bisogna dire che siamo lì come psicoanalisti, e non perché questo ci dia gradi - i pazienti lo sanno bene, è al direttore che chiedono il permesso di uscire - ma perché possano investire sulla parola.
S.Morath: Con una struttura psicotica si tratta di fissare dei significanti, nominare degli oggetti, mentre con i nevrotici si tratta di dispiegare le catene significanti.
J.J.Tyszler: Con un nevrotico il lavoro fa sì che la catena significante sia riportata al rilancio significante ma anche all’oggetto fantasmatico, cioè in permanenza si tengono i due bordi, l’oggetto sessualizzato dal lato del fantasma e svolgimento della catena significante dall’altro, è normale con la nevrosi, mentre uno psicotico, se lo porti sul fantasma, muore, perché non ce l’ha a disposizione. La direzione dei casi è molto
differente, ammesso che si possa parlare di direzione. Ancora onda e corpuscolo: si è in luoghi diversi, non si sa dove siamo.
A.Arturi: A proposito di quel “l’amo con tutto il cuore”, mi pongo la questione di ciò che c’è prima della formazione della lettera, cioè dell’oggetto voce, perchè ho sempre verificato che è il suono della voce, prima che la lettera sia articolata, che è oggetto nel rapporto tra madre e bambino. Si sarebbe potuto lavorare con quella paziente rilanciando la frase con un altro tono?
J.J.Tyszler: Sono d’accordo sulla vostra osservazione, ma per me rispondere è un po’ al limite di ciò che posso dire circa l’oralizzazione del significante, per quanto abbiamo cercato di lavorare la questione dell’orale nello scritto e dello scritto nell’orale. Ma è vero che nel corso di una seduta a volte vale come interpretazione il riprendere la stessa parola e il darle voce: di colpo si sente l’oggetto nel significante; il paziente, se non è psicotico, può anche aver sentito l’equivocità del significante, ma completamente staccato dall’oggetto, sono due luoghi completamente scissi; il solo fatto di oralizzarlo ripetendolo, dandogli la tua voce, può far sentire al paziente la dimensione pulsatile dell’oggetto.
R.Miletto: E il fatto di ripetere un significante con un altro tono, ad esempio ripetendo “che fa paura”, con un tono leggermente diverso, ironico, o un po’ sadico, può far sentire un altro tipo di godimento legato a quel significante, in un contesto in cui l’innocenza dell’espressione sembrava mascherare il piacere del “far paura”?
J.J.Tyszler: Quello che evocate non è che ciò che di specifico Lacan porta nella psicoanalisi, nient’altro che il lavoro del significante, che nello stesso significante ci sono livelli differenti; la dissezione dei significanti è il lavoro lacaniano, che comporta del resto un’economia dell’interpretazione, non porta nessun senso particolare perché si prende lo stesso materiale ma, appunto, lo stesso non è lo stesso, e questo di colpo apre a qualche cosa d’altro. Quando mi succede anche solo una volta alla settimana di sentire una parola in maniera differente è gia una delizia per me, se no, si sente sempre l’automaticità dello stesso, e il senso va nella direzione dell’automaticità. Quando un paziente dice “la morte” e tu riprendi “l’amor…” e il paziente intende l’amore del godimento della morte, solo ripetendo la stessa parola: è questo il nostro tipo di lavoro.
Conferenza di Jean-Jacques Tyszler tenuta il 16 giugno 2007 alla Scuola di psicoanalisi della Associazione freudiana di Torino
J.J.Tyszler, psichiatra e psicoanalista, lavora a Parigi con l’Ecole de psychanalyse di Saint’Anne, diretta da Marcel Czermak e presso l’ospedale di Ville-Evrard. E’ membro dell’Association lacanienne internazionale.

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