samedi 2 juin 2018



LES NON-DUPES ERRENT O LES NOMS-DU-PÈRES – di Jean-Jacques Tyszler 

 

Pubblicato in SEMINARIO DI JACQUES LACAN, "LES NON-DUPES ERRENT"

Seminario tenuto a Roma all’Associazione Lacaniana Internazionale in un ciclo di conferenze dedicate allo studio del Seminario di Jacques Lacan, Les non-dupes errent. La particolarità di questo seminario, sostiene Tyszler, sta nel fatto che il terzo non è tanto il fallo che interviene nelle storie d’amore, ma è lo stesso reale ad intervenire come terzo, cosa che nell’esperienza umana è impossibile garantire.

di Jean-Jacques Tyszler





Dirò qualcosa su un certo numero di punti, quello che dicevo ieri è che se non volgiamo andare troppo svelti, la posta in gioco principale del seminario è che cosa sia questo “tre”, prima di pensare che sia un fatto acquisito, perché in genere si dà per assunto che cosa significa fare tre e si va subito al seminario seguente e, quelli che imbrogliano, passano direttamente a Il sinthomo– il che è un grande sbaglio perché sottintende che saremmo già piegati sotto la questione del “tre”, vale a dire che nelle nostre soggettività noi avremmo già dato per scontato la questione del “tre”.
Muriel Drazien: Abbiamo già lavorato la questione del “tre”con Coppie.
Jean-Jacques Tyszler: La particolarità di questo seminario sta nel fatto che il terzo non è tanto il fallo che interviene nelle storie d’amore, ma è lo stesso reale ad intervenire come terzo, cosa che nell’esperienza umana è impossibile garantire. Per tener conto dell’osservazione di Muriel, in questo seminario abbiamo a che fare con una triplicità di tipo nuovo, una rifondazione della triplicità perché, con lo stesso Lacan, potremmo dire che con la religione cattolica la triplicità viene acquisita con la trinità, ed per questo che Lacan dice che l’unica vera religione è la religione cristiana. Secondo me nel 1973-1974 Lacan cerca di trovare degli argomenti su cui fondare questa triplicità (per questo ci sono dei capitoli matematici, o sul nodo borromeo) nelle tre dimensioni spaziali, come se lui stesso avesse bisogno di verificare che questa sua idea tenesse. Per me ciò che nella vita analitica permette di garantire il terzo punto, o la terza dimensione, è il transfert cioè, quando voi siete all’interno di una cura psicoanalitica, il reale è incarnato dal desiderio dell’analista, quindi è di sua spettanza, per questo possiamo dire che nella cura la dimensione di questo annodamento è operante, il problema è che l’analista ne porta una parte. Lo stesso si può dire quando usiamo altre espressioni come il “soggetto diviso”, anche la “castrazione” – non è come quello di cui parlava Corinne ieri, non è lo stadio dello specchio, vale a dire che non si tratta di una dimensione acquisita una volte per tutte dalla struttura. La divisione del soggetto, la sua eventuale castrazione, come l’ipotesi che egli scriva il proprio nodo, è una proprietà del transfert, ed è sempre ipotetico non è garantito dalla struttura, non basta che voi diciate RSI, per essere dentro RSI.
Janja Jerkov: L’uso della parola “ipotesi” è diverso dall’uso che Lacan fa di “supposizione”?
Jean-Jacques Tyszler: “Supposizione” va inteso nel senso di un effetto contingente non necessario per la struttura della nevrosi. Lacan lo dice nel seminario, la maggior parte di noi se ne va in giro con un nodo olimpico, abbiamo degli ordini, delle cose da fare, nel migliore dei casi, ci Lacan dice, in tempi di guerra tiriamo fuori il coraggio, ma per fare questo basta il nodo olimpico. In genere la dimensione terza del reale è rifiutata dalla nevrosi, per questo lui parla del reale incarnato dal desiderio dell’analista, all’interno del transfert. Nel seminario che ho tenuto sul fantasma, nella maggior parte dei casi, l’orizzonte del fantasma resta una dimensione invalicabile e, come dice Lacan, questa dimensione copre, vela, la dimensione del reale nella vita, quindi è difficile che un soggetto parli della propria vita a partire dal reale, nella misura in cui questo reale sarebbe annodato alle altre due dimensioni. Non si tratta solo del reale occulto e ineffabile.
Muriel Drazien: Perché dici che il reale è rifiutato dal nevrotico?
Jean-Jacques Tyszler: Per me la nevrosi è o il futuro anteriore pulsionale oppure questo orizzonte fantasmatico aperto all’infinito. Quando insomma alla fine sarà un bambino picchiato dal padre e quindi in genere l’orizzonte soggettivo è preso tra queste due dimensioni, l’attuale del reale, che al momento è la cosa più importante, in genere è un effetto dell’interpretazione nella cura, vale a dire che nella maggior parte dei casi occorre per questo il peso dell’analista, perché altrimenti si resta sempre in tempi che possono essere o il futuro anteriore o il condizionale, e il reale è l’attuale.
Muriel Drazien: Cioè è qualcosa che causa sempre uno shock.
Jean-Jacques Tyszler: Esatto. C’è un argomento per dirlo. Gli esempi dati da Lacan, quando utilizza il nodo nella clinica, riguardano, l’avrete notato, riguardano l’amore, le differenti forme dell’amore. C’è un capitolo straordinario sull’amore cristiano, quindi sull’annodamento individuale e collettivo dell’amore cristiano, nel quale siamo tutti. Ci ricorda anche l’amor cortese, c’è un passaggio molto poetico sulla treccia fra un uomo e una donna – poesia poco usuale in Lacan, in genere egli parla dell’amore tra un uomo e una donna in modo brutale. C’è la questione della cura come amore di transfert, non dobbiamo dimenticare che la definizione del transfert è l’amore, e la questione di fondo del seminario è come collocare l’amore di transfert nelle differenti forme dell’amore, se non volete che questo amore di transfert sia nello stesso posto della religione. Quindi questo seminario ha molto a che fare con ciò che si annoda e si snoda nel gioco dell’amore di transfert, c’è un punto difficile da commentare che corrisponde al problema posto alla fine della cura, spesso la fine della cura si rivela più ambivalente della cura stessa – il che mostra che, una volta che il transfert è dissipato o liquidato come diceva Freud, non è così garantito che l’oggetto messo in comune nella cura tenga il nodo. Il problema è che l’inconscio resta aperto durante un certo tempo della cura e la solidarietà dell’inconscio verso gli oggetti dopo la cura spesso si richiude su un’ambivalenza primaria, il che fa si che il nodo diventi più approssimato anche nei legami collettivi. Questo è un problema di cui è difficile parlare in occasioni come le giornate d’estate, però mi sembra valga la pena di sottolinearlo – sappiamo cosa succedeva con alcuni dei migliori allievi di Lacan. Ritengo che sia bene considerare che se il reale svolge il compito di annodare, l’analista ne porta almeno metà di questo reale. In questo seminario tutte e tre le dimensioni riprendono dimensione, non solo il reale. C’è come una forma di arresto su ciascuna di esse. Ieri Corinne ha parlato di immaginario e in genere ci comportiamo come se sapessimo cosa intendiamo per immaginario anche se in un caso complesso come ieri, capiamo che lì sono convocate almeno due dimensioni dell’immaginario, una è l’immaginario allo specchio e l’altra è la defezione dell’immaginario fantasmatico – nei casi clinici si vede bene che, sotto l’involucro dell’immaginario, ne proliferano diversi. In questo seminario, Lacan comincia proprio con l’immaginario quando dice «io, je, immagino, e non ho detto io mi immagino», sta dicendo “io non vi sto parlando di un immaginario egoico, ma di un’altra dimensione dell’immaginario, che permette di aprire la strada alla dimensione del simbolico”. Noi non siamo abituati al fatto che l’immaginario possa avere la stessa importanza delle altre dimensioni – è d’altronde l’eterna polemica con gli amici umanisti, perché gli etnologi e gli antropologi rinfacciano agli analisti di far prevalere sempre il simbolico sul resto, cioè secondo loro, fanno prevalere le parole sulle immagini.
Muriel Drazien: Non soltanto gli esponenti di altre discipline hanno contestato a Lacan questa supremazia del simbolico…come se fosse una specie di super-io. Invece l’immaginario era considerato da molti dominio esclusivo delle psicosi, del narcisismo e, come tale, era liquidato. Quindi questa dimensione dell’immaginario in qualche modo ha patito di questa confusione sulla definizione stessa dell’immaginario, come ha appena detto il dottor Tyszler. È l’immaginario che precede il simbolico, è la dimensione da cui dipende il simbolico. Nell’annodamento che Lacan propone con questo seminario, l’immaginario avrà lo stesso statuto degli altri due registri.
Jean-Jacques Tyszler: Torno un po’ indietro. Parlando del Nome-del-Padre bisogna dirlo al plurale, i Nomi-del-Padre, questo è importante perché tutta la clinica lacaniana è fondata sulla questione del Nome-del-Padre, la psicosi è la forclusione del Nome-del-Padre e, come per Freud, la clinica si deduce tutta dal posto accordato a questo Nome-del-Padre. Lacan apre il seminario ricordando che, a partire dal 1963, avrebbe voluto parlare dei Nomi-del-Padre al plurale, ma che non aveva potuto farlo per problemi politici interni alla psicoanalisi, e questo è fastidioso perché ha impedito a noi di sapere – forse solo chi ha avuto la possibilità di accompagnarlo personalmente, ha potuto sentire cosa voleva dire – questo ci ha privato della possibilità di sapere come Lacan sia passato da i Nomi-del-Padre a RSI, cioè per quale giro passi, che cosa lui metteva dietro quel plurale. Quello che è certo, perché lo ha detto, lo ha trattato in un seminario che nel testo dell’Associazione è l’appendice del seminario sull’Angoscia. Sappiamo che Lacan stava meditando di andarsi a documentare seriamente nel testo della Bibbia ebraica, perché c’è un capitolo che conoscete in ci lui fa una serie di incursioni su importanti significanti e sceglie, non potrei dire diversamente, alcuni Nomi di Dio. In particolare, sceglie per esempio la parola Shadai, un nome utilizzato soprattutto nella preghiera, nell’implorazione – bisogna saper cogliere tutto il contesto perché, nella tradizione ebraica, esiste tutta una serie di Nomi per Dio e c’è anche un uso del plurale nella parola Elohim ma, al tempo stesso, il Nome di Dio è un buco perché è ritirato, la sua materialità è resa impronunciabile. Quindi credo che Lacan si sia interessato proprio di questo: un buco plurale, un buco che è all’origine di una pullulazione di lettere. Sappiamo che Lacan si è dato molto da fare in quegli anni, e dice esplicitamente che gli dispiace non aver potuto procedere in questo studio, è qualcosa di cui noi abbiamo perso il filo, perché il padre della tradizione ebraica non è un Dio dell’amore, ma è un Dio che dice Uno, Uno che vi dice Uno. Dunque è un Uno che diceUno, il che non sottintende che non ci possano essere altri Uno, perché il Dio degli ebrei non negava l’esistenza di altri dei, ma colui al quale lui aveva detto Uno, non voleva che costui onorasse altri Uno, quindi qui abbiamo a che fare con una pluralità complessa di Unoche è una forma del messaggio del monoteismo ebraico, e che è tutt’altra cosa dall’amore cristiano. Qui troviamo una fonte di ispirazione, come di ce Lacan, avete dei colleghi istruiti nella storia biblica, è un tema che meriterebbe un approfondimento e non di far finta di sapere, ma come faceva Lacan, andare a vedere come era scritto, come era tradotto, quali erano i significanti più importanti e che effetto ha sull’annodamento collettivo, cioè sul destino dei popoli – il che potrebbe forse gettare luce su alcune forme usate da Lacan, per esempio dice RSI e dunque lui traduce per noi ciò che realizza il simbolico dell’immaginario e, ciò che realizza il simbolico dell’immaginario, è la religione. Immaginario come una fiction, una narrazione; “il simbolico dell’immaginario” sono le parole utilizzate per dire questa narrazione, ma, queste parole, bisogna andarle a cercare, forse ci potremmo rendere conto di quell’elemento di reale che, anche se siamo dei laici, continua a parlarci e che ancora ci turba nei grandi misteri di cui parla la fede. Lacan dice anche IRS,e fa la stessa cosa: “immaginare il reale del simbolico”, qui si tratta più di un lavoro matematico e linguistico, per questo in alcuni punti del seminario entriamo in una logica matematica, ma ciò che conta è rendere le tre categorie attive grazie al verbo: realizzare, immaginare, rizzare, le rende attive queste categorie. Di questo plurale possiamo trovare una qualche fonte negli studi dei vari monoteismi, ammettere cioè che ogni lingua vivente ha in sé un sapere differenziale, mentre lo dimentichiamo spesso. Quando diciamo i Nomi-del-Padre ciascuno nella propria lingua, pensiamo di dire la stessa cosa, ma non è così; ogni lingua ha il suo Nome-del-Padre. Fin dove possiamo spingere questo modo di vedere le cose per – come dice il Papa – non cadere in un relativismo culturale? perché la conseguenza di questo sarebbe che, se ogni lalangue ha il suo sapere, allora ogni paese deve avere la propria clinica! Si pone così il problema del rapporto tra le invarianti e il sapere di una lingua. Se vogliamo anticipare un pochino, possiamo dire che il Nome-del-Padre può essere il significante. Da quando ha cominciato a parlarne in termini saussuriani, Lacan ne ha parlato sempre, non ha mai smesso: da un lato c’è il significante, dall’altro c’è qualcosa che riprende nel seminario e che separa dal significante e che è l’istanza della lettera, l’istanza della lettera nell’inconscio non è l’istanza del significante – lo riprende nella lezione dell’aprile del 1974, facendo riferimento alla poesia, e dice da un lato la psicoanalisi va dietro la lettera poetica e, dall’altro, dietro la lettera scientifica intesa come matematica. Questa storia dell’istanza della lettera era qualcosa di cui aveva già parlato, ma qui ci ritorna in maniera abbastanza diffusa. Perché è così importante? È scioccante per noi quando lui dice che il nodo non è una metafora, il lavoro dell’annodamento non è metaforico! Per questo bisogna andarci molto cauti, bisogna fermarsi sulle difficoltà. Le categorie che Lacan utilizza in questo seminario non sono delle metafore, quando noi ci parliamo in genere riceviamo le cose sempre come metafore, quando anche voi adesso mi state ascoltando ricevete il mio messaggio come un modo di dire, ma non è questo che Lacan cerca di valorizzare. Quando vuole che si annodi hic et nunc, cioè o si annoda o non si annoda, il punto è o si stringe il nodo o non si stringe. Per chiarire queste difficoltà, evidentemente, c’è il passaggio del significante, la questione della lettera e la questione della catena letterale con Joyce, di cui Muriel parla spesso molto bene. In Joyce la questione della lettera è in sé, da sola, una categoria particolare, possiamo dire significante, lettera, intreccio nella catena, come nome, come Nome-del-Padre. E così, poco per volta, si arriva al punto in cui Lacan fa questa sbalorditiva enunciazione, cioè quando dice che le lettere RSI sono il Nome-del-Padre, cosa che finirà per dire l’anno seguente. Come vedete bisogna andarci cauti, altrimenti questa frase, che RSI sono il Nome-del-Padre, sembra un puro assioma e non si capisce nemmeno che cosa voglia dire.
Muriel Drazien: Questo mi fa ricordare qualcosa che avevo fatto valere nel mio studio sullo Smemorato di Collegno. Ricordate la particolarità del caso? Questo soggetto era tipografo e avevo ipotizzato che – poiché a quell’epoca i tipografi lavoravano con i piombi – nello svolgere questo lavoro una delle lettere fosse caduta. Poteva effettivamente succedere, non era impossibile. Ed è proprio questa lettera perduta, che poteva essere la lettera del Nome-del-Padre, che mancava di essere bene attaccata alle tre dimensioni di cui stiamo parlando.
Jean-Jacques Tyszler: Quando nel 1963 Lacan dice di aver bisogno di dire “i Nomi-del-Padre”, è perché già all’epoca si poneva la questione dello statuto della stessa psicanalisi, ed era proprio la questione dell’eredità lasciata da Freud riguardo il Nome-del-Padre. È chiaro che Freud pone al centro della sua dottrina il padre perché questa questione è inevitabile. È altrettanto chiaro che tutta la teoria e la prassi della psicoanalisi ci appaiono oggi in panne, e questo succede perché su questa questione non abbiamo avuto il coraggio di procedere oltre Freud. Lacan scrive questo nel 1963, nel seminario sull’Angoscia, quindi Lacan si angoscia perchè se, rispetto a quanto detto sul padre da Freud, la psicoanalisi non ha da dire nulla di più, allora essa morirà. Dunque questa diagnosi, che in un primo momento farà parlare Lacan di Nomi-del-Padre per dire qualche cosa che vada al di là del mito di fondazione freudiana, adesso facciamo un salto di dieci anni. In questo seminario “l’evento” del dire resta, lo dice Lacan, un fatto di discorso e questo mi sembra molto importante. Sembra cioè che la conditio sine qua nondel nodo, dell’annodamento, sia che si dia “evento” di un dire, quello che lui aveva chiamato “discorso” – e qui ci sono tutta una serie di passi in cui Lacan fa riferimento al fatto di aver parlato di “discorso” psicanalitico. Ci torna senza sosta, ed è importante perché in genere abbiamo una visione cronologica di Lacan, diciamo il “Lacan dei discorsi”, poi il “Lacan delle superfici”, “dei nodi” come se ogni dieci anni si voltasse pagina e Lacan passasse ad altro. Allora qui l’evento del dire – che dunque è un evento simbolico – è un evento che si produce tramite il discorso, e quindi non è necessario rifarsi ad un mito di fondazione originaria. Fa dunque riferimento alla sua propria fondazione, che è un evento del dire: per esempio io dico “non c’è rapporto sessuale”, questo è un evento, è un evento di fondazione perché va a mettere una spina nell’universo della concezione dei rapporti uomo-donna, come in qualunque relazione duale. Vedete com’è interessante questo modo di concepire l’evento da parte di Lacan, c’è evento solo se c’è un dire che fa atto, non c’è bisogno di parlare diTotem e tabù. Dico qualcosa che possa scriversi come “non c’è rapporto sessuale” – scrivere perché il nodo è una scrittura. Allora io scrivo “erre”, con tutti i giochi di parole che abbiamo detto, lo scrivo RSI e, appena l’ho scritto, questo fa evento. La conditio sine qua non dell’annodamento è che deve essere tenuto da un evento di discorso.
Corinne Tyszler: Quali sono gli effetti sulla soggettività di questo fatto di dire faccio a meno del mito?
Jean-Jacques Tyszler: Lacan ha risposto varie volte, ha detto di non chiamare ciò “complesso di Edipo”, che non è così complesso, ma ha detto che è il Nome in quanto “nominante”, e che in questa fase non si fonda tanto sul mito quanto sulla nominazione, e probabilmente sta parlando della nominazione dei godimenti, che è proprio del discorso analitico. Io nomino, cioè io posso nominare, e tu Corinne l’hai fatto nel tuo intervento quando ad un certo punto hai detto “è questo che si chiama godimento Altro”, e lì non c’erano riferimenti al mito, dunque è un evento del dire, nomino dunque separo il cielo e la terra distinguo fra i godimenti, il Nome in quanto nominante. C’è in vendita il seminario RSI in cassetta all’Associazione, è molto interessante per chi come me non ha avuto la possibilità di ascoltare la voce di Lacan. Lacan non dice RSI, fa dei giochi, gioca in permanenza, se avete solo lo scritto evidentemente è diverso. Quindi quando diceva, faceva giocare in permanenza lo scarto tra lingua poetica e lingua scientifica. Allora bisogna che questo dire si scriva perché cessi di non scriversi. Cioè deve fare evento per se stesso, il che capita spesso in una cura analitica. Nelle sedute ci sono tanti piccoli eventi, ma fanno evento in quello stesso momento ma, siccome non arrivano fino al punto di scriversi, si dimenticano, non si annodano al discorso che fa da contesto. C’è quindi un baluginio che poi ricade – ed è una delle difficoltà dell’analisi quotidiana. Perché l’annodamento borromeo funziona tanto per il soggetto come per la collettività, che ne fa una particolarità della sua operatività? La parte straordinariamente clinica, secondo me, è quando Lacan spiega come uno degli anelli diventi il mediano. Avete visto quel lungo passo in cui dice come uno degli anelli sia scelto per fare da anello di mezzo? Non lo riassumo perché basta leggere il testo, ma in questo passo Lacan spiega come la religione cristiana nomini ogni anello attribuendogli un significante, quindi nomina questo annodamento che non è l’annodamento di un singolo ma di tutto un popolo, un annodamento collettivo, un annodamento non semplice. Cos’è che non funziona nel nodo della religione? Il nodo è fatto dall’anello intermedio, l’amore non è solo il mediano, ma è dichiarato anche come fine, finalità e, il solo fatto di dirlo, è qualcosa di immenso perché, se per esempio consideriamo quel che chiamiamo ideologia, nella storia l’ideologia si produce quando un intermedio viene concepito anche come fine. Basti pensare al marxismo, non è tanto il fatto che la diagnosi fosse falsa, cioè il modo in cui il capitale è distribuito, è un mezzo di lettura ma se di questo mezzo fate la finalità le cose si chiudono come una follia. Dunque questo passo è molto importante perché, secondo Lacan, questo modo di trattare il nodo è eretico, cioè non si può prendere in un annodamento un mezzo per un fine. Questo passo è molto importante, bisognerebbe soffermarsi a lungo su di esso, è una critica radicale di molti annodamenti collettivi e non riguarda solo la religione. Adesso torno a quello che dicevo prima della psicanalisi. Se l’amore di transfert è il mezzo, e Freud segnala che appunto non è il fine, insomma la psicoanalisi non deve sfociare in una erotomania quindi, in linea di principio, il mezzo deve dissolversi, l’amore di transfert si dissolve a vantaggio di una nuova concezione dell’oggetto. Cioè l’oggetto che appare al centro, l’oggetto che annoda, che è messo in comune, non è solo il godimento dell’oggetto di scarto.
Domanda: Anche nel cristianesimo il mezzo non può essere il fine, nel cristianesimo l’amore è ciò che permette che esista la trinità, l’amore di mezzo è qualcosa che rimane legato all’io, mentre l’amore finale è Dio.
Jean-Jacques Tyszler: Per questo Lacan utilizza questo paradosso quando dice che nella trinità cristiana c’è un guadagno di sapere, che la trinità comprende le tre forme di Uno, e che era negli studi sui Nomi-del-Padre, ma che si chiarisce a partire dalla concezione cristiana dell’Uno. Ma quello che potremmo chiamare questa sorta di guadagno di sapere, secondo Lacan, viene pagato al prezzo di un grave difetto perché il desiderio sessuale è messo fuori campo. E viene messo fuori campo perché il fine è l’amore e non il desiderio, è un prezzo molto caro. Sulla diagnosi, se posso dire, Lacan su questo è molto fermo perché per la psicoanalisi ciò che conta è il posto del desiderio. La psicoanalisi, come diceva Freud, non è certo una concezione del mondo nella sua totalità, la domanda della psicoanalisi è “c’è ancora posto per un desiderio umano? Dove? Come?” E dunque lì sembra pensare che nella religione cristiana – il cristianesimo è una forma di annodamento – il nodo ha per vocazione la forclusione del desiderio. Attenzione perché ne potremmo dedurre “abbasso il clero”, ma non è quello che dice Lacan, anzi lui dice che non ha problemi con quanto dicono i preti, quindi queste formulazioni le dobbiamo concepire come paradossi, perché lui stesso sembra avere un pensiero che non è mai duale, non vuole dire questo è bene, questo è male, perché vuole farci uscire dal due, per questo ci sono queste sue formulazioni di bordo. Bisogna accettare la sfida lanciata dalla psicanalisi al sociale, cioè il fatto che, come Freud, Lacan pensava che questo discorso facesse evento. Per fare due bisogna bucare la connivenza abituale, tempio o moschea è la stessa cosa, c’è bisogno che si buchi qualcosa altrimenti si è presi nelle convenzioni abituali, e da qui il suo richiamo al posto del discorso analitico. Può anche apparire eretico, per questo vi ho ricordato questa citazione sul padre, è solo la psicoanalisi che porta una nuova lettura su ciò che viene chiamato padre. In Francia lo spazio psichico rispetto a questa questione non è come quello italiano. Occorre che la psicoanalisi stessa sia dupe dei suoi stessi strumenti, delle sue stesse parole, perché il rischio è che il concetto possa venire al posto del sapere della lingua. C’è un capitolo, che trovo molto difficile, in cui qualcuno domanda a Lacan qual è il rapporto tra le formule della sessuazione e il nodo. Lacan cerca di stabilire un legame, accetta di rispondere e il discorso prende un andamento complicato, ci sono delle cose rimaste appese, a un certo punto parla di nodo destrogiro e levogiro, a seconda dell’orientamento matematico del nodo, è il reale matematico che lo impone, e però finisce per chiedersi se questo non corrisponda ad una dimensione sessuata, se non si debba vedervi una dimensione dell’alterità sessuata, restano questioni. Nel seminarioAncora, il godimento Altro funziona come nel campo femminile, senza entrare nella clinica. Se prendiamo RSI, che Lacan tiene un anno dopo Les non-dupes errent, il godimento Altro è invece una dimensione normale di ogni parlessere al di là della divisione. Credo che dobbiamo distinguere questo andamento, questo andare e ritornare indietro di Lacan.
Muriel Drazien: Mi sembra che la posta in gioco nei due seminari sia diversa. In Ancora è la sessuazione, in questo, riguardo il nodo, si sta interessando alla questione dell’Edipo, alla questione del padre e alla questione della psicosi che si evolve fino a Il sinthomo. Non è più tanto sulle questioni della sessuazione, non vedo bene come si potrebbero trasferire le formule della sessuazione sul nodo, perché penso che Lacan stia cercando altro, lui ha un altro scopo nella sua teorizzazione. Il che non vuol dire che uno è annullato, che non vale più però, secondo me, non è trasportabile, non è possibile far confluire ciò che teorizza in un dato momento in ciò che teorizza successivamente.
Cristiana Fanelli: Mi ha molto colpito che, in Ancora, Lacan dica che il reale su cui si fonda il discorso psicanalitico corrisponde al dire “non c’è rapporto sessuale”. Sembra che questo dire costituisca una grande cesura: c’è qualcosa che Lacan ripensa, c’è qualcosa nella sua teoria e nella clinica che si rinnova a partire da questo dire. Perciò, anche se non c’è un legame diretto, forse tanto le formule della sessuazione quanto questo nuovo discorso sui Nomi-del-Padre e questo nuovo modo di pensare la scrittura, derivano, sono rese possibili dal dire “non c’è rapporto sessuale”.
Jean-Jacques Tyszler: Lacan dice che già nella clinica di Freud possiamo trovare le tre categorie, ma è come se fossero impilate una sopra l’altra. Cioè Freud può descrivere una categoria, poi l’altra, poi l’altra ancora, mentre per Lacan è necessario prendere queste tre categorie insieme, cosa inusuale per il nostro modo di pensare. Per esempio l’idea che Freud ha del corpo, sapete che parla di cose straordinarie per esempio del sintomo isterico, ma per Freud comunque il corpo è il sacco del corpo, l’involucro del corpo, ed è questo che innervosisce Lacan, cioè constatare che c’è una clinica inventiva, ma che, quando Freud ne dà conto, resta schiacciato in una dimensione immaginaria. Di solito abbiamo voglia di rimettere quel reale impensabile che emerge nell’osservazione all’interno della psicologia comune, perché l’intelletto fatica a mantenere questo punto annodato. Lacan lo dice, la soggettività è un essere piatto, siamo sempre nella dimensione della superficie piatta, fatichiamo molto ad agganciare il punto che ci sollevi verso un’altra dimensione, ed è questo il vero mutamento di Lacan rispetto a Freud. Quello che mi sembra molto euristico in Lacan passa per gli effetti pratici di dire e di scrivere. Per esempio Muriel fa degli interventi su Il sinthomo, ma quando Lacan ne ha parlato, lo ha detto e lo ha scritto: sembra niente, ma è enorme perché con niente altro che con questo dire e con questo scriverlo, ha spostato tutta la dimensione del sintomo. Bisognava prima dissolvere il sintomo freudiano, mentre il sinthomo è ciò che ci permette di restare nella lingua, di restare ancorati allo stile di ciascuno di noi. Allora Lacan scrive, dice al suo pubblico “a partire da oggi, scriverò sinthomo e quindi tutto quello che fino a questo momento sentivate come sintomo, farete attenzione perché qui faccio una distinzione, vale a dire c’è il sintomo isterico ma c’è anche il sinthomo”. Questa è la cosa straordinaria di Lacan, che a noi oggi sembra ovvio, ma ci vuole qualcuno che lo dica e lo scriva. Quando nella nostra associazione Charles Melman ha parlato di una nuova economia psichica, ha introdotto un nome, lo ha detto e lo ha scritto e, a partire da quel momento, si capisce il dramma che si apre. Dramma nel senso classico, perché cosa ci viene a fare improvvisamente un significante nuovo in un campo che, fino a quel momento, sembrava andare benissimo per conto suo, ma non conta assolutamente nulla che ci sia chi è pro e chi è contro, ciò che conta è che sia stato detto e che sia stato scritto. Lacan dice “è un dire che fa evento”. Perché noi non possiamo fare evento? Per esempio io sono a Roma, potrebbe essere un evento, il problema non è solo che io lo dica, ma la questione è che io devo trovare una forma di scrittura il cui reale sia stretto dai reali congruenti. E Lacan dice, nomina quale reale congruente lavora, la lettera logica – matematica da un lato e poetica dall’altro – e quindi deve tenere entro questi binari, altrimenti qualunque psicanalista potrebbe dire qualcosa, fare evento per se stesso ma di rado per la psicanalisi stessa. C’è un altro punto geniale nell’opera di Freud: L’uomo dei lupi nel momento dell’allucinazione del dito tagliato. Freud dice che si tratta della castrazione e, al tempo stesso, aggiunge che della castrazione il paziente non voleva saperne niente, ed è su questa frase che Lacan lavora, per tirar fuori il concetto di forclusione. In questi momenti si capisce cosa voglia dire Lacan quando dice che l’inconscio è il reale, è l’organizzazione della lingua stessa che dà la chiave, non è descrittivo. È che la lingua ci organizza e, da quando siamo nati, non cessiamo di far fronte a lalangue, non cessiamo di difenderci, di accettarla in tutte le possibilità della struttura. Nell’esempio dell’Uomo dei lupi Lacan va a prelevare il concetto di forclusione a partire da un dire. Il tessuto del nodo è la stoffa della lingua stessa, in una seduta di psicanalisi non si lavora con il computer, ma si lavora solo con la stoffa della lingua: chiamiamo clinica gli effetti su di noi, sul nostro corpo, di questa lalangue. Questa clinica è fissa? Non si può modificare? Ci sono invarianti umane tali che noi possiamo limitarci a dire “nevrosi”, “psicosi”, “perversioni” e con questo abbiamo esaurito. Oppure possiamo chiederci se il punto in cui siamo con questo seminario apre invece la clinica ad altre questioni. Lacan impiega molto tempo per arrivare all’immaginario. La dimensione dell’immaginario costituisce uno schermo continuo, al posto del rinvio alla divisione tra un significante e un altro. Per la prima volta in questo seminario, quando si accinge a parlare d’immaginario, per elevarlo ad un’altra dimensione, Lacan dice di parlare di un “immaginario bucato”, il che è una novità anche per noi. Per noi è impensabile anche il modo in cui parla del reale: prima nessuno pensava di fare un buco nell’allucinazione. Se prendete il seminario, “tre”, il reale, è l’allucinazione. La cosa speciale di questo seminario è che ciascuna di queste categorie è bucata, il che costituisce una novità anche per Lacan. Questo ci obbliga dunque ad ulteriori precisazioni quando parliamo d’immaginario o degli immaginari. Corinne l’ha detto molto bene ieri, per quanto riguarda lo stadio dello specchio Lacan aveva da subito segnalato che nell’immagine c’è un oggetto che fa buco, tutta la storia dell’oggetto a, che è già presente, una forma di negatività dell’immagine, che potremo concepire come la presenza del reale in una superficie che altrimenti sarebbe tutta piena. Questo dipende molto da come i colleghi raccontano questo stadio dello specchio, come cioè lo stesso strumento è bucato dalla clinica, dal modo di dirlo.
Domanda: Per me è chiaro che, nello stadio dello specchio, sono già presenti tutte e tre le categorie.
Jean-Jacques Tyszler: Attenzione, proprio quando si crede di aver afferrato bisogna andarci cauti. Ieri abbiamo parlato di un caso di psicosi allo specchio, ma il sottinteso era che noi stessi sappiamo quale sia la nostra forma allo specchio, come se ci fosse chiaro. Mi dispiace: il nevrotico non sa qual è la sua immagine allo specchio, ecco perché la stessa parola stadio non va bene. Noi non smettiamo di non vederci allo specchio. È evidente nella clinica dell’adolescente. Quando arriviamo in età un po’ avanzata, si vede come il narcisismo si snoda allo specchio. Il primo specchio per il bambino è il viso dell’altro, i colleghi che si occupano della primissima infanzia sperimentano in continuazione queste interrelazioni precoci e, la mancanza di queste interrelazioni, può condurre all’autismo. Ma oggi non c’è solo l’autismo, ma vi sono anche forme di depressione primaria profonde del bambino piccolissimo; la psicosi infantile, che non sempre è autistica, cosa molto lavorata dagli specialisti della prima infanzia. Insomma continuano a domandarsi in che modo il corpo trovi la sua unità, la sua forma. Il primo specchio del bambino è il viso della madre, ma sempre collegato alla voce. Qualche anno fa Marie-Christine Laznik deduceva tutta la patologia dell’autismo dallo stadio dello specchio e dalla storia del terzo tempo della pulsione. Di recente ha lavorato molto sulla dimensione della pulsione invocante della voce, e dice che la sua pratica ne ha risentito, è mutata. Vedete non è tanto la teoria, è la pratica, e noi siamo coloro che hanno una pratica, cioè deduciamo gli oggetti della teoria da ciò che si impone nella pratica. Avremo delle giornate sulla voce e, in autunno, ci saranno anche delle giornate organizzate da Marie-Christine sulla pulsione invocante. Qui si vede che la psicoanalisi è viva, perché non smette mai di lavorare sui propri strumenti. Voi sapete che Lacan ha consacrato dei momenti molto importanti dei suoi seminari alla questione dello sguardo. Il suo interesse per la voce, a parte la voce allucinatoria, non è proprio così evidente. Per noi questo è un lavoro che continua, io non li chiamo concetti, sono delle operazioni, degli strumenti operatori, non è dell’ordine del concettuale, ma è qualcosa che lavora. Nel nodo l’immaginario è bucato il che, in linea di massima, è qualcosa che è all’opposto dell’immaginario, perché anche quando ci parliamo fra di noi, c’è qualcosa che fa buco e, per evitarlo, mettiamo in continuazione dell’immaginario. Se qualcuno dice qualcosa che fa veramente buco, lo ricopriamo subito. Cioè vi mettete nella posizione di chi dice, mi immagino che abbia voluto dire questo. Lacan dice eventualmente, la cosa che potete sopportare è che io immagini, vale adire che questo immaginario sarà offerto alle altre categorie e permetterà di intenderlo.
Janja Jerkov: A proposito d’immaginario, Lacan dice che noi possiamo lavorare il nodo solo mettendolo al piatto, quindi in una dimensione immaginaria, e da questo ne deduce tutta la ricchezza delle sue deduzioni.
Jean-Jacques Tyszler: La formula della matematica per Lacan, è immaginare il reale del simbolico, cioè mette in primo luogo proprio l’immaginario, cioè il reale della matematica si può abbordare solo in una forma di messa a piatto. C’è un problema nel capire come Lacan passi dal nodo messo a piatto al nodo nello spazio. Nell’esempio che lui fa di legame tra un uomo e una donna, che è l’esempio della treccia, è proprio un esempio direi quasi tattile, perché bisogna rifare l’intreccio per sei volte, e questo non si può fare nella messa a piatto, bisogna proprio agirlo nella materialità e con un numero specifico di volte per ritrovare i fili che vogliamo trovare annodati. Qui si vede chiaramente che la messa a piatto non è sufficiente per trasmettere questo genere di esperienza. Nel testo Lacan dice che ci vuole proprio la mano della donna per fare la treccia, lì è soprattutto una treccia. Lacan aveva dei buoni matematici attorno a sé e domandava loro “provami questo”, “dimostrami quest’altro”.
Domanda: Possiamo dire che in un’analisi, nella prima fase del transfert, ci si scontra con l’immaginario specifico del paziente? E che, nel lungo lavoro dell’analisi, il paziente non vada all’incontro di questo buco, di questo immaginario che teoricamente Lacan definisce oggetto a, in questo mi sembra molto evocativo il gioco della voce, del dire e dello scrivere “amour”, “a-mur”, molto evocativo dell’impattare questo reale.
Jean-Jacques Tyszler: Trovo molto pertinente ciò che lei dice. C’è un testo in cui Lacan descrive l’avventura di una cura e per farlo usa le categorie RSI. Sapete, in una cura si impara più dagli errori che da un guadagno di sapere, cioè si impara più dal capire perché non è così. Possiamo dedurne che il cammino di ogni lettura deve essere perseguito. Ma è probabile che, nel proseguo di una cura, sperimentiate tutte le permutazioni delle lettere e così l’analisi procede fino al momento in cui vi rendete conto che “non era questo”. È l’aspetto più interessante della questione aperta da Freud: grazie all’equivoco posso leggere IRS, posso leggere SIR, chi me lo impedisce? posso farlo. Per quello prima parlavo del reale del transfert: il problema è vedere come può fissarsi lo stop perché, dice Lacan, bisogna pure fermarsi ad un certo punto! e qui ha ragione perché, probabilmente, è la messa in gioco della funzionalità dell’oggetto a permetterlo, a permettere cioè di mettere un punto – e non solo puntini di sospensione. Sono vere questioni di lavoro analitico. In questo seminario è ancora presto ma, nell’anno successivo, al cuore del nodo sarà posto l’oggetto a, vale a dire un oggetto che ha subito tutte le metamorfosi, dall’oggetto parziale freudiano, passando per la letteralità, per il tritatutto sessualizzato del fallo, per finire poi come buco, ma un buco che è garante della nominazione, un buco attivo, garante che il nodo possa conservare la sua triplicità. Lacan considerava che questa metamorfosi dell’oggetto fosse essenziale in una cura, ma questo si vedrà meglio l’anno prossimo. Per darvi subito un esempio, apparirà di forza nel seminario Il sinthomo perché, come dice Lacan, lì tutto è tessuto e ritessuto a partire dal buco del Nome-del-Padre perché, per Joyce, è questo buco-Nome che lo fa tessere, come un ragno, la sua tela. È la materia continua dei suoi scritti, dei suoi saggi, dei suoi giochi di parole, dei suoi enigmi: il nome ricusato. È il tessuto continuo della sua scrittura. Questo è per Joyce. Diversamente, sono le metamorfosi dell’oggetto che permettono che qualcosa si scriva. Il difetto del Nome che è il nostro soccorso – come dice il poeta -, non è la consistenza del mito del padre, che è piuttosto il nostro miele. È la difficoltà dell’eredità della posizione di Freud. Ma per una psicoanalisi laicizzata, come quella che ha cercato di fare Lacan, è piuttosto il difetto, la mancanza di Dio che offre il soccorso, non è dunque la consistenza, ma il buco. Ritengo che questo seminario costituisca un momento di passaggio essenziale alla vitalità della stessa psicanalisi, perché altrimenti essa reintegrerebbe il normale dell’“ama il tuo prossimo”, quello che poi chiamiamo psicoterapia. Sembra che qui Lacan avrebbe voluto altro. Con i seminari RSI e Il sinthomo, vedremo tutto il peso di questa operazione di Lacan. La sua è una scrittura etica: il sinthomo, e non Antigone, è l’etica della psicoanalisi. Per questo motivo non possiamo separare teoria e pratica, perché la teoria della psicoanalisi è la pratica. “Ben dire” di un caso clinico, è fare etica e, d’altra parte, è la cosa più difficile, molto più difficile che commentare un pezzo di seminario, perché commentando il seminario ci possiamo sempre proteggere dietro la parola dell’altro. Se non ci capiscono, non è un problema, si aspetta, non è necessario correre. L’altro giorno sono stato all’Ecole pratique des Hautes Etudes en Psychopatologies, l’insegnamento era Storia della psicanalisi. Io non faccio storia, però ho raccontato loro come Freud, a proposito di reale, avesse ripensato il “trauma”, perché il Freud del dopoguerra non è il Freud degli studi sull’isteria. Dopo la guerra mondiale, Freud si chiede come deve chiamare il trauma – perché la stessa parola indica sia la piccola seduzione sessuale sia questo macello della prima guerra mondiale e allora come posso chiamarlo? A proposito di reale, c’è una parola tedesca, schrecken, che significa “orrore”, “forte spavento”: questo “orrore” non è la paura e non è l’angoscia, è qualche altra cosa, è altro e quindi, da questo momento in poi, sarà questo che chiamo trauma. Per questo motivo Lacan amava Freud e, anche noi lo amiamo, non è un caso. Lo stesso Freud rivisitava in continuazione le sue parole e i suoi significati. Quando il reale lo sconvolgeva troppo, Freud si deprimeva, era molto depresso nei confronti della sua teoria, credeva di non capire più nulla, di dover rifare tutto, e non perché fosse un pessimista, era soltanto qualcuno di molto lucido dinanzi al reale. Lacan ne parla in relazione alla questione dell’occultismo – Lacan si è imbattuto in questa stessa stranezza che ho trovato anch’io quando ho studiatoL’interpretazione dei sogni che, come sapete, è stato ultra censurato dall’edizione ufficiale, hanno voluto che Freud restasse ultrascientifico, ma tutte queste cose non escono fuori. Anche nell’edizione francese ufficiale delle opere di Freud questo testo non c’è e, quindi, non si riesce a cogliere la censura che è stata operata. Capite adesso perché, ad un certo punto, Lacan si mette a parlare di occultismo. Freud dava credito al reale, lo interessava; Lacan è molto rispettoso della lettura di Freud, ne prende un pezzettino – in questo caso il testo I limiti dell’interpretazione, un testo completamente sconosciuto che, però, Lacan riprende. Riprende lì dove Freud parla di “cifratura dell’interpretazione” e, dice Lacan, questo è geniale! Però Lacan ha dovuto cercarlo e leggerlo in tedesco. Invece Lacan sarà innervosito dal posto che Freud riserva al padre nell’interpretazione della cura, ne sarà sempre assillato. Invece di dire padre, Lacan dirà Nome-del-Padre – il che già costituisce uno scarto di tipo simbolico perché viene posta una metafora al posto di qualcosa di realistico. Ma non gli sembra sufficiente e allora ecco Les non-dupes errent e poi RSI. Dunque la questione non ha smesso di occupare e preoccupare Lacan, come del resto lo stesso Freud che, fino al suo Mosè, è stato preso dalla questione di che farne di questo accidente di padre. Per questo si tratta di svolte importanti per il futuro della nostra disciplina e ciascuno di noi nel suo piccolo è portatore di queste stesse questioni nella società civile, a Roma, tra i nostri amici, i nostri colleghi, gli altri rappresentanti delle scienze umane. Sta a noi garantire che questo interrogativo continui.
Domanda: Mi sembra che questo seminario sollevi molte questioni sulle psicosi. Lei prima parlava dell’amore di transfert come mediano che annoda e che si sostiene dalla messa in comune come oggetto a. Quindi mi viene da pensare ai possibili nodi, quando il paziente psicotico è lui stesso oggetto a.
Jean-Jacques Tyszler: Mi sono fatto la stessa domanda e mi sono riproposto nei mesi futuri di riprendere lo schema R, che è negli Scritti. In Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi Lacan produce il complesso schema R che, come lo stadio dello specchio, andrebbe rivisto, necessiterebbe di una messa a punto. Dalle ipotesi che si possono avanzare, non scaturiscono necessariamente novità nella pratica. Siamo rimasti al trattamento reale delle psicosi di Lacan, si saprebbe infatti se c’è qualcuno nell’Associazione che è andato avanti. Io, come Corinne ieri, distinguo tra risorse della struttura – che non sono completamente acquisite e che vengono dalla complessità stessa delle psicosi – e l’intervento dell’analista in questa tessitura. Bisogna essere modesti perché noi circoliamo sempre in una messa a piatto, in strutture che hanno una complessità topologica inaudita, molto più della nevrosi, e dunque all’interno di tali strutture non sappiamo proprio dove siamo. Se diciamo “i Nomi-del-Padre”, ci potremmo anche chiedere come dire “la forclusione” perché “la forclusione dei Nomi-del-Padre” non suona, crea un problema. Bisognerebbe riprendere questa sistemazione topologica dello schema R e vedere come rilavorarlo con il sinthomo. Ma è un lavoro di più persone e questo ci obbliga a riprendere i fondamenti, a riaprirli, a vere grandi ambizioni con il proprio dramma, perché Lacan ne aveva, nonostante sia rimasto sempre modesto nelle conclusioni pratiche. Abbiamo esteso il campo della psicanalisi a molti altri campi anche attraverso delle sconfitte, ci sono infatti alcuni nostri ambiti che sono stati conquistati da colleghi non analisti. È molto importante, quando si trova qualcosa, che venga scritto in modo da essere trasmesso alla collettività.
Corinne Tyszler: A proposito di annodamenti, oggi si tende a dimenticare di annodare Lacan con Freud e, nell’ascolto dei nostri pazienti, ci dimentichiamo della lettura di Freud, nonostante sia ancora operante.
Jean-Jacques Tyszler: A proposito della questione posta da Corinne, vorrei far notare che, nel sesto o settimo capitolo, Lacan, dopo aver osservato che la psicoanalisi non ha a che fare con i numeri ordinali ma con numeri cardinali, riprende la questione della successione dicendo che, data una serie di numeri, ad un certo punto il numero che segue non è un numero qualunque ma è quel numero. Si pone il problema della successione in un altro modo, che possiamo certo dire rientra dalla finestra sebbene lo zero che non sia un numero reale. Sono problemi logici che a Lacan derivano proprio dall’utilizzo della matematica. Non sappiamo come questo si colleghi con quanto si agita in Ancora, per esempio sul posto dell’eccezione – ce ne vuole almeno Uno che dica no alla funzione fallica. Cosa diviene dell’eccezione nella topologia dell’annodamento? Perché quando usa i colori essi non hanno a che vedere con l’Uno? In matematica l’uso del colore esprime il rapporto di altro che fa meno di Uno. Ad un certo momento Lacan fa gli anelli dello stesso colore e li nomina, ma non è la stessa di quando fa gli anelli colorandoli – sembrano operazioni simili ma non lo sono perché l’introduzione dei colori è di un altro ordine rispetto all’Uno, allora lì introduce qualcosa che prima non c’era. Lacan ha sempre lavorato con nodi colorati. Comunque la questione del colore è diversa , è una questione di natura logica perché il colore non è una nominazione. A lungo Lacan si è interessato alla relazione dell’Uno con l’Altro. In molti suoi seminari c’è traccia dell’Uno con l’alterità, che poi è il vecchissimo dibattito filosofico sul rapporto del particolare con l’universale. Un fatto che il marxismo non è riuscito a risolvere, la questione della nazionalità nei paesi comunisti non si è mai stata risolta. Il nodo introduce il fatto che ogni dimensione è altra per l’altra, non è l’Uno per gli altri, non è l’Uno per l’Altro, se non quando ponete come mezzo una di esse, dove una è messa come medio per le altre. In RSIogni dimensione è altra per l’altra, senza che si possa dire di ciascuna che sia una. Questo fa sì che Lacan dica che gli anelli del nodo hanno la stessa consistenza e la stessa gerarchia. Quello che colpisce in Lacan è che, nello stesso tempo, porti avanti più linee di pensiero. Nello stesso capitolo parla di tre Uno: dell’Uno del monoteismo e poi differenzia altre due forme di Uno. Sta facendo lo sforzo di dire Uno reale, Uno simbolico, Uno immaginario. Quindi il lavoro è su due linee allo stesso tempo, per arrivare a pensare il “tre”. Marcel Czermak diceva che per lui il Nome-del-Padre per un verso è la metafora paterna, il fallo simbolico e allo stesso tempo S di A barrato. A lungo non ho capito cosa intendesse, ma era il suo modo di dire i Nomi-del-Padre – perché in Lacan c’è sempre questa triangolazione fallo, Nome e S di A barrato, e l’insieme è tenuto da questi tre poli, è quindi un altro modo di nominare la triplicità.
Domanda: La teoria di Lacan è molto logica, ma per comprendere e apprezzare ciò che ci propone bisogna uscire dalla sua logica.
Jean-Jacques Tyszler: Non so come dire, ma bisognerebbe che lei sia dupeprima di trovare all’esterno un punto di logica, perché non è la sua logica che lui utilizza. Per questo mi sono dato da fare per farvi notare che, quando è al limite della disciplina analitica, Lacan fa il punto di capitone del miglior reale disponibile che trova nella lunga storia della scrittura della logica matematica, delle innovazione della matematica, perché all’epoca i nodi e gli intrecci erano scoperte recenti. Oppure utilizza i grandi testi della filosofia nei confronti dei quali poi si mette in posizione critica. Non dovete quindi pensare di avere a che a fare con la logica di Lacan, ma con un reale di una logica che si vuole logica e non potete restare all’oscuro in permanenza. La disciplina deve in qualche modo essere trasmissibile, cioè occorre che quando andate a parlare in Argentina, in Marocco, voi siate ascoltabili, quindi che ci sia una forma di reale condivisa. Quindi l’aspetto logificato, viene da quest’esigenza e quindi, inizialmente, conviene nutrirsi. Nessuno di noi è a proprio agio con la totalità dei riferimenti indicati da Lacan, ciascuno ha le sue proprie modalità di rimozione, ma il rischio è che lei vada a cercare una posizione dall’alto, il rischio è che si dica, ad esempio, che quello che ha detto Freud sull’isteria non è niente…ma poi voi come fate? Non dovete privarvi di entrare con lui in una forma trasmissibile, altrimenti rimarrete isolati.
Muriel Drazien: Lacan parlava della possibilità di rompersi la testa con il suo insegnamento, di sbatterci il naso. Non era una questione di leggere i suoi seminari. Per Lacan era importante parlarne, come stiamo facendo noi.
Domanda: L’amore ci dice Lacan è appassionante, a condizione però che se ne conoscano le regole del gioco…subito dopo però ci dice che non le conosciamo! Bisognerebbe inventarle nel discorso analitico, però qualcosa si perde perché ci mettiamo la pelle, dice Lacan.
Jean-Jacques Tyszler: È giusto ciò che nota, non è solo un auspicio di tipo scientifico, che sarebbe già molto, ma è la stessa questione che lui ha trattato quando parla della scommessa di Pascal. Bisogna scommettere che c’è dell’altro, e se non scommettete […] Lacan lo dice: se il nostro messaggio ci viene dall’Altro, beh questo Altro bisogna identificarlo, non siamo autodidatti. Mi è successo recentemente di essere invitato a Parigi, la questione che pone Lacan è: quando leggo, a partire da quale punto di reale lo faccio? Perché in genere si legge per dimenticare, succede anche a voi, quando leggete Lacan che è difficile, il vostro sguardo lascia da parte ciò che non capite e cercate ciò che vi è familiare e, laddove immaginate, funziona bene, dove immagina Lacan no. In genere, nei tempi di lettura dell’Associazione, non c’è un capo. Durante il seminario d’estate, nessuno fa una lettura totale. Charles Melman è lì, ma non dice come dobbiamo leggere, e questo implica una fiducia nello scambio e quindi il fatto di essere dupe di una certa traiettoria. E quando Lacan cerca il messaggio nel monoteismo ebraico, è la stessa cosa. Dio dice : non vuoi sentire però senti. È normale che bisognerà transitare verso altri modi di trasmissione, perché il giorno in cui andremo in Cina, non potremo certo parlare in cinese del monoteismo. Abbiamo appena finito Ancora e avremo bisogno di un momento di respiro, ma sappiamo che quando respiriamo qualcosa è già morto.



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