lundi 21 mai 2018

Schizofrenia moderna – di Jean-Jacques Tyszler


Schizofrenia moderna – di Jean-Jacques Tyszler

Pubblicato in Psichiatria


Seminario tenuto a Roma il 16 marzo 2007 presso il Centro di Studi italo-francesi dell’Univ. di Roma Tre




Per prima cosa vorrei far emergere un paradosso: Marcel Czermak, che viene spesso citato
come colui il quale si è occupato di schizofrenia, non utilizza quasi mai questo termine. Ciò
non vuol dire che egli non riconosca che vi siano dei pazienti che non sono paranoici, ma sem-
plicemente che esita ad utilizzare questo significante. In effetti lo statuto del significante schi-
zofrenia, per la psicanalisi, è più complesso ed incerto di quello di paranoia. In ogni caso M.
Czermak ha cercato di proporre un termine che appare più freudiano, cioè quello di psicosi sen-
za io, anche se nemmeno questo ricopre in toto la questione della schizofrenia.
Non so la situazione dell’Italia, ma in Francia il libro di E. Bleuler, Dementia praecox o
gruppo delle schizofrenie [Deuticke, Leipzig 1911] è stato tradotto solo di recente (1). Si tratta
dunque di un’opera che in Francia è stata letta molto poco e molto poco studiata, anche se tut-
to ciò non ha impedito, come dappertutto, l’estensione considerevole del concetto e il fatto che
il termine di schizofrenia si sia progressivamente imposto come paradigma della psicosi al po-
sto della parola paranoia. Si tratta di un problema intellettuale interessante: quello, cioè, di co-
me una parola riesca ad imporre una propria egemonia anche quando il discorso è senza refe-
renti. Il fatto che un discorso sia senza referente è proprio del discorso della schizofrenia. In
due parole possiamo dire che qui troviamo tutta la forza della psichiatria americana che rico-
nosce un solo tipo di ingresso nella psicosi, dicendo: “ora dobbiamo parlare di schizofrenia e
delle altre turbe psichiche”, anche se non sono convinto che questa sia l’unica causa di tale biz-
zarrìa. Dobbiamo allora cercare di capire perché ciò avvenga.
Freud è partito dalla questione della paranoia e, da parte sua, questa è stata una scelta
di tipo analitico. Non si tratta di una scelta culturale (perché lui conosceva i lavori sulla schi-
zofrenia), ma Freud dichiara di aver deciso di mettere la paranoia al centro della questione con-
cernente il transfert nelle psicosi. Lacan si è comportato allo stesso modo. A partire dalla sua
tesi di laurea, come anche dal suo celebre seminario sulle psicosi in cui dice che se si vuole ri-
flettere su ciò che è praticabile e su ciò che non lo è riguardo al transfert, sulle relazioni tra fol-
lia e ragione, su cosa voglia dire “comprendere”, oppure cosa voglia dire anche più semplice-
mente “parlare” (cioè come succede che qualcuno “parli” quando parla; è sufficiente che
qualcuno parli per decidere chi sta parlando?), per tutte queste bellissime questioni Lacan fa
come Freud, cioè dice :“parto dalla paranoia”.
Si tratta quindi di una questione difficile per noi ed è per questo, credo, che M. Czermak
non ha amato utilizzare il significante schizofrenia, fondamentalmente per tre livelli di difficoltà:
– in primo luogo perché in molti ambiti della psichiatria moderna la parola schizofrenia
si presta al ritorno di una concezione organicistica della malattia mentale, cioè ad una conce-
zione del tutto biologizzante;
– in secondo luogo, come i colleghi che lavorano in istituzione sanno bene, l’approccio
dal punto di vista della schizofrenia permette di parlare soprattutto del trattamento sociale del-
la psicosi, che è ugualmente uno spostamento moderno del problema. Non si interpella più,
come un tempo, il medico sulla storia e sulla clinica del paziente, ma sul suo trattamento so-
ciale, ossia quella che viene chiamata la riabilitazione sociale del paziente. So che questo è in
auge in Italia da molto tempo ma si fa sentire adesso anche in Francia soprattutto da quando, come da voi, si sta cercando di chiudere i posti letto negli ospedali;
– c’è infine un terzo punto cui occorre prestare attenzione: il bordo delle schizofrenie vie-
ne detto spesso un bordo quasi senza possibilità di transfert. Si ritiene comunemente che si trat-
ti del bordo più impraticabile dal punto di vista del transfert. Possiamo forse pensare che sia
proprio la modernità di questo transfert a spaventarci. In fondo ci capita di incontrare diver-
si soggetti alla deriva che presentano aspetti inusuali per il medico: quelli che parlano soprat-
tutto del proprio corpo o di un certo numero di oggetti bizzarri, come gli sguardi, le voci, le
sinestesie, ecc. È anche vero che il medico non è sempre preparato a ricevere questi discorsi.
Quindi si parla di una clinica senza transfert o, in maniera più moderna, di una clinica di con-
fine rispetto a ciò che intendiamo per transfert. Penso che questa sia una vera questione.
Il mese scorso sono stato a Milano a parlare di depersonalizzazione e ciò che mi ha colpito
è stato accorgermi che le parole della clinica non hanno lo stesso statuto. Così diciamo sempre
la clinica, ma le parole che noi utilizziamo per parlare di clinica (sia psichiatrica che psicanaliti-
ca) non hanno spesso lo stesso valore. Ogni parola della clinica ha un suo senso, ma resta un ve-
ro significante solo se la parola rimane viva (e non un semplice riferimento, una conoscenza o un
sapere universitario). Occorre che in qualche modo questa parola progredisca e si ramifichi nel-
la vita e sono queste parole che, a mio parere, meritano di essere definite parole cliniche. Per esem-
pio, per quanto riguarda la depersonalizzazione che si basa su fondamenta classiche – tra l’altro
poco conosciute in Italia, ma che fanno riferimento ad una vasta letteratura – si percepisce che
si tratta di una parola moderna, vale a dire che noi stessi stiamo ancora imparando cosa signifi-
chi essere depersonalizzati. Si tratta, quindi, di una parola che offre tuttora uno spazio di lavoro
dentro di noi, lavora nella nostra cultura e non ne abbiamo ancora completato il percorso.
Possiamo allo stesso modo riprendere qualche significante della storia della schizofre-
nia e ci accorgiamo che alcune parole cadono oppure vengono sostituite. Kraepelin, per esem-
pio, parlava di dementia praecox, ma si tratta di un termine che è scomparso, probabilmente
perché, se ci pensate, dire che un paziente ha una demenza precoce significa utilizzare dei si-
gnificanti particolarmente ingombranti: la parola demente, infatti, è qualcosa che colpisce l’e-
voluzione della malattia per cui il paziente viene definito già morto soggettivamente ancor pri-
ma di evolvere. In questo caso quindi la scelta del significante comprometteva l’evoluzione del-
la malattia. Così dopo Kraepelin i medici hanno cominciato a rifiutarlo perché osservavano for-
me molto varie (tra cui anche dei casi di remissione), ragion per cui dire “morte precoce” non
serviva più tanto. D’altra parte gli psichiatri hanno conservato le forme cliniche di Kraepelin
(tra le quali l’ebefrenia, la catatonia) per descrivere, per esempio, le forme gravemente stupo-
rose, come pure si dice ancora paranoide per descrivere un paziente che conservi un delirio mol-
to ricco, poco definito e non ben sistematizzato. Si vede quindi come un significante possa vi-
vere e morire. Per questo, dunque, la dementia praecox è uscita di scena.
Bleuler, che era a Zurigo nella famosa clinica di Burghölzli, riprenderà un termine mol-
to conosciuto perché Freud lo usa molto, ossia Spaltung. Si nota qui il tentativo di qualificare
il percorso delle idee, il procedere delle associazioni di idee. Questa descrizione della disso-
ciazione, ossia della “scissione delle associazioni”, appariva all’epoca molto freudiana, dato l’in-
teresse mostrato da Freud riguardo al termine Spaltung. D’altronde non è solo questo termine
ad essere interessante in Bleuler, ma anche un altro che viene definito blocco[ted. Blockierung,
fr. barrage, NdR]. Avviene cioè che, mentre sta parlando, il paziente all’improvviso si arresti,
si assenti e riprenda il suo discorso su un versante che non ha niente a che vedere con il piano
su cui stava parlando. Si tratta di un fenomeno clinico molto caratteristico, che è anche parti-
colarmente sconcertante per il medico ed è tipico di questo bordo della psicosi.
Un altro significante molto interessante in Bleuler è una parola che spesso viene usata in
maniera molto semplicistica, ossia il termine ambivalenza o ambitendenza. Capita di aver ap-
pena ricevuto qualcuno con l’idea che la seduta sia andata bene, tanto che il paziente vi fa un
grande sorriso e vi saluta dandovi la mano, mentre dopo qualche secondo ritorna da voi accu-
sandovi di averlo insultato. Si tratta di una situazione molto frequente nell’evoluzione di una
schizofrenia, cioè la capacità di passare rapidamente da un sentimento al suo contrario. Il ter-
mine ambivalenza è quindi molto ricco, come anche ambitendenza, che naturalmente è molto
di più di una “normale” ambivalenza. Un altro termine che ha avuto molto successo è il ter-
mine di vita autistica che viene utilizzato frequentemente per descrivere certi aspetti di vita un
po’ immaginativa del paziente che sembra sempre perso nei propri pensieri. Tutto quello di cui
ho parlato lo troviamo in Bleuler che ha lasciato una traccia profonda e arricchente nella cli-
nica tedesca.
Nella medesima epoca, all’interno della clinica francese non si utilizzavano le stesse pa-
role, per es. la parola discordanza descritta da Chaslin che era un medico della scuola della Salpê-
trière. A lui interessava un altro tipo di fenomeni, per esempio quando un paziente annuncia-
va la perdita di un suo parente e subito dopo si metteva a ridere e scherzare. Questo veniva
chiamato riso immotivato, anche se la formulazione non è molto esatta, perché per il paziente
c’è sempre una motivazione all’interno della propria logica. A proposito di questi casi Chaslin
parlava di discordanza,dato che non si annuncia un lutto scherzandoci sopra.
Di tutt’altro genere è il lavoro sull’automatismo mentale parallelamente svolto da de Clé-
rambault, che viene citato spesso da Lacan. La questione posta da de Clérambault è: quale tipo
di oggetto causerà tutto il pensiero dato che il paziente è parlato più di quanto parli, commen-
tato più di quanto commenti (e tutto questo appassionerà Lacan). Qual è l’oggetto che guida il
pensiero? Per esempio, si può parlare di psicosi a base di automatismo mentale a proposito di
pazienti che presentano dei fenomeni iterativi riguardanti un oggetto-voce che li guida in con-
tinuazione nella loro vita, senza per questo dover sempre manifestare grandi deliri strutturati?
Si vede insomma come la clinica venga costruendosi con dei bordi approssimati nelle lo-
ro giunzioni, vale a dire che non è riscontrabile una piena unificazione dei concetti. Ogni tra-
dizione si avvia per il proprio cammino e nessuno dei vari percorsi può esattamente sovrap-
porsi all’altro. Ognuno cerca di privilegiare un insieme di significanti e siamo noi a chiamare
tutto questo nosografia. Si tratta di costruzioni fittizie, entità di lavoro, creazioni del pensiero,
per cui nella Svizzera tedesca si parla di schizofrenia, mentre nella cultura psichiatrica france-
se si dice in maniera un po’ diversa. In fondo è la mondializzazione dei significanti che fa di-
menticare tutto questo e si è andati avanti così. Vorrei citare qualcuno che ha lavorato come
noi al Sainte-Anne, E. Minkowski, il quale si è cimentato con la questione delle schizofrenie e
ha proposto un termine inatteso: razionalismo morboso (2). Lo schizofrenico, secondo lui, ha una
sua logica ma si tratta di una logica che è completamente anaffettiva, per cui Minkowski pre-
ferisce parlare di razionalismo morboso, accostandosi così alle paranoie. La parola “désaffecté”
in francese vuol dire o “adibito ad altro uso” oppure “senza affetti”, per cui in questo caso pen-
so sia meglio mantenere la possibilità dell’equivoco. In effetti Lacan ha dato piuttosto tardi l’in-
dicazione dello sdoppiamento immaginario, cioè una parte del corpo che funziona, per es., nel-
l’immagine e, dall’altra parte, il corpo in quanto tale che è completamente anaffettivo. A que-
sto proposito Lacan faceva l’esempio di Joyce, che noi conosciamo bene.
Le cose sono poi andate avanti e l’estensione della parola schizofrenia è divenuta consi-
derevole, per cui adesso si parla di sindromi schizo-affettive, di psicosi schizo-freniformi, di for-
me pseudo-nevrotiche ecc. Penso che quando una parola comincia ad avere un’estensione così
grande e totalizzante ciò sia indizio di estinzione imminente. Ritengo, perciò, che la stessa idea
di schizofrenia sia in procinto di esplodere, per cui forse tra vent’anni nessuno farà più una le-
zione su di essa.
Il termine di psicosi senza io si basa sul lavoro di Lacan che distingue il polo delle para-
noie da qualcos’altro. Lacan dice che c’è il polo delle paranoie (che è abbastanza certo, anche
se clinicamente molto vario), lasciando in tal modo intendere che ce ne sia anche un altro per
il quale lui utilizza la parola immaginario o immaginazione o mentalità. M. Czermak ha lavo-
rato molto per riprendere queste formulazioni parlando, per es., di immaginario senza io per
non utilizzare il termine schizofrenia. D’altronde ritroviamo nella clinica diverse forme speci-
fiche di cui attualmente non si sa molto cosa fare, ma che sono molto interessanti, tra cui, per
es., quella della parafrenia, cioè le parafrenie confabulatorie di Kraepelin, chiamate dal Dupré
deliri di immaginazione. In tutta la storia della clinica troviamo tracce di qualcosa che cercava
di individuare un polo delle psicosi senza necessariamente essere inglobato dalla parola schi-
zofrenia. Vorrei cercare di farvi rivivere alcuni significanti della schizofrenia attraverso le ca-
tegorie che utilizziamo abitualmente con Lacan, cioè Reale, Simbolico e Immaginario. Cercherò
di affidarmi ad alcune parole, tra cui quella di dissociazione, che sembra quasi una tautologia
e che per Bleuler era la turba caratteristica della schizofrenia. Ciò che si coglie in alcuni pazienti
è la mobilità, cioè la rapida trasformazione di fenomeni che possiamo chiamare reali, per es. le
allucinazioni, ma anche gli sguardi persecutori e le sincinesie bizzarre concernenti il loro cor-
po. È interessante constatare la frequente trasformazione di questi oggetti in idee deliranti mal
strutturate, proteiformi e il rimaneggiamento del linguaggio che ne deriva e che si spinge sino
all’invenzione di neologismi o a quella che viene chiamata la schizofasia. Queste categorie so-
no forse dissociate oppure sono in una condizione di perenne indistinzione, vale a dire che si
riversano incessantemente l’una nell’altra? Anche Freud aveva osservato lo stesso tratto clini-
co, quando dice in un suo articolo che “la parola è la cosa”, cioè la parola diventa la cosa stes-
sa. Lacan dirà “il simbolico diviene reale” per descrivere lo stesso fatto clinico. Perché allora
parlare di dissociazione? Vedete qui come queste categorie abitualmente separate divengano
intercambiabili fra loro. La questione può anche essere affrontata dal lato fuorviante del mec-
canismo pulsionale. Anche qui la parola dissociato non dice molto perché il paziente descrive
dei legami assolutamente tirannici e incredibili proprio perché non rappresentabili, non rap-
presentabili in quanto noi non riusciamo a rappresentarceli. Per es. abbiamo la descrizione di
Bruno Bettelheim nella Fortezza vuota in cui si parla del bambino-macchina che rappresenta una
formidabile descrizione della tirannide pulsionale (3).
Sono stato colpito dal caso di una giovane paziente che non poteva più mangiare e di-
ceva che se avesse accettato di mangiare, se avesse accettato – come diceva lei – il desiderio di-
sua madre di mangiare, si sarebbe legata interiormente a lei, vale a dire che l’oralità più sem-
plice le appariva come un pericolo di fusione con l’altro. Poteva così arrivare a dire che per man-
giare le occorreva la radio, che poi accendeva perché la radio “crea delle voci”, aggiungendo
che lei doveva sapere quando mangiare e quando non mangiare. In questo piccolo esempio si
vede come il commento della voce (per quanto stupida come quella della radio) sia necessario
per una pulsione orale che non trova più la propria normale benevolenza nell’altro (in questo
caso la madre). Nello stesso tempo troviamo il versante voce e oralità nello scatenamento del-
la pulsione sguardo quando, incrociando delle persone per strada, la paziente si abbandonava
a una sequela di oscenità. Vedete quindi il fenomeno dell’oralità, le questioni dello sguardo e
della voce, tutto un mondo decisamente insolito che per questa paziente si coordina metten-
do in difficoltà la nostra lettura abituale di ciò che, per esempio, chiamiamo pulsione.
Faccio, dunque, fatica a parlare di dissociazione, quando credo che si tratti piuttosto di
un montaggio tenuto insieme da una tirannide interiore, per cui non ne possiamo avere una fa-
cile rappresentazione mentale. Poiché questa paziente non si presentava come una paranoica,
il termine schizofrenica si è imposto per difetto. D’altra parte, siccome lei era anoressica, semi
mutacica, travagliata dalla questione dell’insorgenza delle voci, potremmo anche dire che si trat-
tava di un’ebefrenica. In genere si usa il termine ebefrenia quando si sceglie di privilegiare la
perdita di iniziativa e l’atonia del pensiero. In realtà, nell’arco di due o tre anni questa giova-
ne paziente ha sviluppato, per dirla alla Freud, dei tentativi di guarigione – uno dei quali è sta-
to un grande delirio mistico che l’ha indotta ad entrare in una comunità religiosa di tipo cari-
smatico, quindi un po’ ai margini della Chiesa ufficiale. Successivamente, tramite questa stes-
sa comunità, si è messa a fare delle icone, lavorando le forme – in particolare le amigdale che
rappresentano una forma di pittura dell’anima. Ciò che le interessava era come l’anima faccia
tratto, come si disegni l’elevazione dell’anima. Questo lavoro del tratto rappresentava forse per
lei un modo di riagganciarsi a quello che Lacan chiamava il tratto unario. Il lavoro che la pa-
ziente ha prodotto fa parte di conoscenze del tutto assodate nei Servizi di psichiatria e in virtù
delle quali, nei Servizi che non hanno definitivamente smarrito la propria capacità di orienta-
mento, si ricorre ai vari Laboratori creativi (e ciò, non per ragioni di tipo sociale, ma per per-
mettere al paziente di liberare dentro di sé le proprie “vie di guarigione”, come le chiamava
Freud). Ci si accorge allora che con questo tipo di paziente è all’opera un lavoro di separazio-
ne poiché l’Immaginario si sforza di costruire quello che Lacan chiamava una metafora deli-
rante (in questo caso si trattava di un grande delirio mistico), mentre su un altro versante qual-
cosa del tratto tenta comunque di iscriversi, cerca di fare simbolo, di fare forma.
Con una paziente di questo tipo non ci troviamo in difficoltà dal punto di vista della dis-
sociazione, mentre ciò che è più difficile da sostenere sono quei blocchi di cui parlavo prima,
cioè quella sospensione assolutamente intollerabile – nella parola stessa come nella vita libidi-
ca. Così la paziente smetteva all’improvviso di parlare e, dopo molto tempo, diceva: «non ve-
do nessuna ragione per niente, non posso più pensare, perdo coscienza, divento come un le-
gume». Poi si metteva a piangere e diceva «non trovo più niente da dire a nessuno, divento vuo-
ta, non riesco più nemmeno disegnare» e, quindi, aggiungeva : «non posso più vedere» – nel
senso di una perdita dello sguardo significante, della perdita della libido agganciata allo sguar-
do, così come manifestava un’analoga stasi libidica per quanto riguardava l’oralità. Si tratta di
un’area molto appassionante e, nello stesso tempo, dolorosa per descrivere la quale Lacan ad
un certo punto utilizza una parola che M. Czermak ama molto: la “morte del soggetto”, nel ca-
so delle psicosi.
Nella storia della clinica troviamo anche traccia di una parola, l’anedonia, che è un neo-
logismo creato da un filosofo per descrivere la perdita di sensibilità al piacere della vita, alla
presenza pulsionale rispetto alle cose. Questo termine di per sé non è semplice in quanto si so-
stiene su una parola molto complessa come quella di “piacere” e credo anche che rappresenti
una delle difficoltà maggiori nel seguire l’evoluzione di questo tipo di psicosi, ossia il fading di
questi pazienti di fronte al senso stesso di ciò che noi chiamiamo vita. Da tutto questo deriva
che nelle équipes diventa essenziale che un infermiere, uno psicologo e uno psichiatra siano là
per garantire il posto di una certa benevolenza per cui i pazienti sanno che anche nei momen-
ti più difficili sarà l’uno o l’altro dei membri dell’équipe a mantenere questo filo sottilissimo di
vita tranferenziale (come sa bene chi si occupa di questo genere di psicosi). Occorre quindi che
qualcuno nel reale mantenga il posto della benevolenza dell’Altro. Così, per esempio, gli in-
fermieri lavorano molto sulla cura del corpo, cioè osservano se i pazienti si lavano, si trucca-
no, si lavano i capelli, si vestono bene per andare a trovare il medico. Sembra niente, ma è tut-
to! È quel filo sottile che mantiene transferenzialmente il legame con la vita.
Riguardo alla questione del Nome del Padre, Gilles Deleuze ha radicalmente contesta-
to l’interesse di un riferirsi alla forclusione del Nome del Padre per la schizofrenia e ha obiet-
tato che è curioso ricondurre lo schizofrenico a problemi che in tutta evidenza non sembrano
appartenergli, cioè al padre, alla madre, alla legge, al significante. Deleuze aggiunge che lo schi-
zofrenico è altrove, ma questo non è un motivo per concludere che manchi di ciò che non lo
riguarda. Si tratta di una posizione che probabilmente intende polemizzare con una lettura uni-
versale della psicosi. Occorre, d’altronde, riconoscere che è assolutamente vano voler forzata-
mente introdurre nel paziente schizofrenico qualcosa del romanzo familiare o storico. Con il
paziente paranoico questo può avere un seguito per cui potrà protestare, dialettizzare ecc., men-
tre con il paziente detto “schizofrenico” questa modalità di approccio non avrà alcuna conse-
guenza. Ciononostante la paziente di cui parlavo prima non era del tutto libera dal modo in
cui per Lacan il Nome del Padre arriva a limitare il godimento materno. Quello che lei evoca-
va senza la minima reticenza, senza digressioni, senza pudore era proprio il desiderio fisico (sen-
suale e sessuale) per la madre. Si trattava di rievocazioni forti senza alcuna zona di rimozione
e senza che le sue frasi apparissero come alcunché di scandaloso o di spropositato, per la qual-
cosa bisogna anche saper cogliere tale tipologia. La paziente non può mangiare perché se man-
gia è assorbita dalla madre: «se mangio mi fondo con lei». Sogna invece di fondersi con lei sen-
sualmente, per cui, nonostante quello che dice Deleuze, è vero che l’impossibile bastione del-
la metafora paterna è in questo caso comunque percepibile – probabilmente attraverso il ri-
lancio della questione del padre in direzione della metafora mistica, il grande delirio mistico
di cui ho parlato prima.
È interessante osservare come da parte degli psicanalisti nordamericani siano stati fatti
dei lavori sulle cosiddette “famiglie scismatiche” (cioè, famiglie in cui la discordia tra i genito-
ri si manifesta in modo completamente scoperto) e che descrivono delle tipologie di madri in-
trusive, mai “corrette” dall’intervento del padre. Per quanto riguarda la schizofrenia, come pu-
re le psicosi a base di automatismo mentale, possiamo dire che questa trasmissione dell’intru-
sione rappresenta una pista di lavoro molto interessante: vale a dire la pista di come si trasmette
in modo palese la discordia e, nello stesso tempo, l’intrusione dell’altro nell’intimità, così co-
me ci viene spesso descritto nel caso dei giovani pazienti schizofrenici.
Il bel termine di discordanzadescrive l’apparente incongruenza tra un affetto e l’enun-
ciato di quest’affetto: lo schizofrenico può evocare con un sorriso delle idee assolutamente spa-
ventose. Come potete ben immaginare, la discordanza è per ognuno di noi qualcosa di molto
comune. Nella maggior parte del tempo c’è un’abituale discordanza tra il nostro fantasma in-
timo e il costume. Sembra strano che si sia andati a cercare questa parola nella psicosi, quasi
sottintendendo che noi fossimo in qualche modo “concordi” con i nostri umori e i nostri af-
fetti. Molti pazienti quando parlano di un lutto hanno un sorriso illuminante – vale a dire che
il dolore impossibile è illuminato da un godimento, come per es. comunemente succede agli
uomini che spariscono nel momento in cui le mogli partoriscono e non c’è una parola specifi-
ca per parlare di questo…Vi vorrei quindi sensibilizzare su questo punto: che la maggior par-
te delle parole che utilizziamo in questo campo, come “dissociati”, “discordanti”, “impreve-
dibili” sono proprie anche della nostra vita e questo rappresenta un problema nella trasmis-
sione di questa clinica, cioè un problema per il fatto che ci basiamo su significanti che in fon-
do reificano la nostra propria consistenza e pongono il clinico in una posizione di “buon gu-
sto” e di “razionalità”. È proprio lo schizofrenico che qui ci può dare delle lezioni di umiltà
sul nostro modo di giudicare il prossimo. Per esempio mi è successo molte volte di incontrare
negli ospedali pazienti che, in pieno inverno, mentre fa un freddo terribile, stanno in maniche
di camicia o camminano a piedi nudi : si tratta dei famosi schizofrenici. La prima domanda stu-
pida che ci viene in mente è : «Ma non hai freddo? Perché non vai a coprirti?» – parole che
cadono inevitabilmente nel vuoto perché il corpo di questi pazienti e il loro discorso non è za-
vorrato da questo tipo di significanti. Per quanto mi riguarda, trovo interessante il fatto che
questi pazienti ci rinviino i nostri discorsi correnti, in quanto siamo noi che pensiamo che un
corpo sia fatto in un determinato modo, che debba coprirsi d’inverno, spogliarsi d’estate, ecc.
Spesso, invece, il corpo dello schizofrenico testimonia una resistenza incredibile ed i servizi ab-
bondano di casi che sfidano la medicina abituale. Mi permetto ancora una volta di ricordare
che in quest’ambito assai complesso riguardante il corpo la più encomiabile è l’esperienza de-
gli infermieri che con questi pazienti hanno un modo di parlare del corpo diverso da quello
del medico investito dalla propria cultura e dalle sue conoscenze. Vedete quindi come, dopo
il termine “dissociazione” che pone diverse difficoltà, anche quello di “discordanza” rappre-
senti un termine altrettanto delicato.
Prima di concludere vorrei accennare ad un problema ricorrente: quello degli atti ag-
gressivi (tra cui quelli autoaggressivi), che effettivamente fanno della schizofrenia una clinica
dell’atto, aspetto che ancora rimane non ben controllato nonostante l’alto dosaggio dei farmaci
somministrati. In alcuni casi nell’après-coupdi un atto si può, per es., trovare il posto dell’in-
giunzione allucinatoria, tenendo conto che in certi casi è stranamente il delirio a dare un po’
di temperanza ad un Reale che altrimenti diventerebbe implacabile. Voglio sottolineare questi
aspetti perché siamo in un’epoca in cui i medici tendono ad abbondare nel trattamento far-
macologico e, nonostante ciò, mi vengono in mente diversi gravi casi di suicidio di schizofre-
nici che ho avuto in cura e che venivano considerati meno deliranti del solito. L’équipe mi ave-
va riferito che stavano meglio, erano meno deliranti, meno allucinati, ma sono morti. Dobbia-
mo dunque tener conto di queste forme di dialettica della clinica che noi abitualmente non pos-
sediamo.
Il versante detto paranoide della schizofrenia è spesso più maneggevole rispetto alle psi-
cosi a base di puro automatismo, ma può capitare anche il contrario: vedere, cioè, pazienti che
trascorrono tutta la vita con una vocina che li guida, li comanda e forse anche li protegge, pur
perseguitandoli, senza che essi costruiscano un delirio cristallizzato. In queste aree assistiamo
insomma alla piena vacuità delle classificazioni, per es. per quanto riguarda il cosiddetto sin-
tomo positivo e negativo, oppure sintomo primario e secondario. Nell’esperienza clinica si può
far riferimento ad un esempio clinico ed al suo totale opposto.
I nostri sono degli universi di classificazione che, sfortunatamente, sino ad oggi non ci
forniscono un filo transferenziale agevole. Tutti sanno, per esempio, che un incontro sessuale
per un paziente molto deficitario può arrivare a cambiarlo completamente, fino al punto di ren-
derlo all’improvviso del tutto socializzato. In questo caso egli avrà preso appiglio dall’imma-
gine della coppia, di quello che per lui occupa il luogo della coppia. Nel caso di un altro pa-
ziente quello stesso atto può renderlo, invece, ancor più delirante. M. Czermak direbbe, a que-
sto proposito, che si tratta di un incontro “troppo riuscito”.
Vedete come occorra sempre essere semplici e attenti giacché siamo ben lungi dal poter
unificare questo versante antagonista delle psicosi paranoiche – versante che per pigrizia chia-
miamo schizofrenia. All’interno di questo polo ho cercato di mostrare la grande inutilità dei
significanti che usiamo, dato che essi spesso costituiscono la reificazione della nostra propria
consistenza. Siamo noi che ci viviamo come non dissociati, non discordanti, non impulsivi e come amanti “normalmente”, il nostro prossimo. Si tratta in tutti questi casi di significanti che
si attestano sul piano della “moralità”, nel senso peggiorativo del termine.
Per concludere sono d’accordo sul fatto che, nonostante ciò, l’estensione del termine schi-
zofrenia dovrebbe aiutarci a comprendere meglio l’uomo contemporaneo, per esempio a com-
prendere come un discorso o un linguaggio si emancipino da un referente. Ad esempio, nel li-
bro Coppie (5) ciò che non è detto chiaramente, ma che si lascia intuire, è il modo con cui gli uo-
mini e le donne di oggi si emancipano dal significante fallico, il quale – sparendo nel limbo –
lascia questi due significanti (uomo/donna) in un rapporto enigmatico. Come può un lin-
guaggio, il nostro, emanciparsi da questi significanti? Non è facile da descrivere, mentre per
lo schizofrenico tale emancipazione è esperienza di tutti i giorni. Come ci dice spesso Charles Mel-
man, tutti noi siamo soggetti a un modo di vita imposto dal godimento del corpo, cioè dalla
legge del corpo e dei suoi diritti, con tutti i godimenti nuovi e immediati che ne discendono.
Anche a questo riguardo i pazienti schizofrenici sono esemplari nel descrivere queste diverse
forme di tirannie; sono capaci di descrivere tutta la serie delle tirannie parziali dello sguardo,
dell’oralità, dell’ipocondria, di certe bizzarrie ecc.
Un terzo punto molto interessante per noi è la frammentazione dell’identità. Nonostante
sia stata ampiamente descritta, si ha difficoltà ad accettarla perché oggi insistiamo molto sul ri-
torno delle identità (per es. quella religiosa, etnica, regionale ecc.). Ma tale ritorno si realizza
proprio sulla base della frammentazione a monte di quelle identità, per es. su ciò che gli ame-
ricani chiamano “personalità multiple” e che porta il paziente a descriversi come camaleonte.
In questo caso si tratta di una vera pista di lavoro sia in senso teorico che clinico, in quanto la
dissociazione diventa un auspicio fantasmatico di vivere più vite separate che sarebbero riuni-
te solo dall’economia degli oggetti. Penso che ciò conferisca alla questione della Spaltung un
certo carattere di modernità, quello che chiamerei, dal mio punto di vista, la modernità della
parola schizofrenia. Per quanto riguarda, invece, la questione della modernità della stessa cli-
nica della schizofrenia, penso che dobbiamo fare uno sforzo considerevole per scoprire le pa-
role che ci occorrono, per inventare i significanti che ci mancano giacché quello che abbiamo
a disposizione (come ho cercato di dire finora) presenta difficoltà dottrinarie ed etiche; espri-
me un tipo d’approccio moralistico alla questione delle psicosi.
Come ultimo punto, penso che lo avrete capito, non mi sento a mio agio per quanto ri-
guarda l’elaborazione dei pazienti schizofrenici tanto che, prima di venire qui, ho cercato di
ripercorrere a ritroso gli anni del mio lavoro chiedendomi di quale caso di schizofrenia avrei
potuto essere fiero. Per semplificare credo che, più che in altri casi, il percorso di un paziente
schizofrenico sia un problema da affrontare in équipe, sia cioè una questione di clinica istitu-
zionale. Non si deve dimenticare, infatti, che c’è una dimensione della clinica che resta quella
di un pensiero collettivo. Personalmente non so seguire uno schizofrenico nella scompagina-
mento della sua vita senza considerare l’insieme dei diversi saperi: in primo luogo quello del-
la medicina ospedaliera, ma anche quel sapere molto specifico di cui ho parlato prima e che po-
tremmo chiamare la clinica infermieristica con il suo tipo di transfert particolare, diverso da
quello dell’analista nel suo studio privato. Ci vuole quindi una certa dose di umiltà nell’acco-
starsi al significante schizofrenia rispetto al quale, a mio parere, ci troviamo al limitare delle no-
stre competenze.
(1) La traduzione
italiana – ad opera
di analisti
dell’Associazione “Cosa
Freudiana” – risale
a più di venti anni fa.
Cfr. E. Bleuler,
Dementia praecox
o il gruppo delle
schizofrenie, Trad.
italiana a cura
di J. Vennemann
e A. Sciacchitano,

(2) E. Minkowski, La
schizofrenia, Einaudi,
Torino 1988.

(3) B. Bettelheim, La
fortezza vuota,
Garzanti, Milano 1976,
p. 526.

(4) Coppie. Una storia
psicanalitica: il nodo
di Lacan, a cura
di M. Drazien,
Carocci editore,
Roma 2007.

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